La malattia della modernità
Come altre mattine prendo la macchina e da casa vado in ufficio.
Dal finestrino osservo Padova, nelle sue periferie e nella zona industriale, e come spesso accade mi sento frustrato e tradito per il modo sfacciato in cui il caustico sviluppo urbano bistratti la bellezza e la natura del luogo. Nel vuoto normativo e pianificatorio, sembra che ogni costruttore abbia ostinatamente fatto di testa sua, di modo frettoloso e dilettantistico: focalizzato sul proprio ombelico non si è accorto che al di là della recinzione della propria villa o fabbrica prendeva forma un amalgama disarmonico, con il verde costretto progressivamente a indietreggiare negli spazi di risulta.
Questa bruttura ferisce la mia sensibilità. Mi viene da pensare al sottosviluppo, concetto che richiama un sentimento di vergogna, quella di essere anch’io parte di questo territorio e di questa comunità. E’ la stessa vergogna che percepisco nel cuore di molta della “mia” gente, quei veneti che con la testa bassa lavorano sempre, quasi volessero infliggersi una punizione per il loro sentirsi inadeguati, intrappolati in una condizione priva di cultura e di generosità.
Sembra quindi che l’onta della povertà rurale permanga nonostante il boom economico, manifestandosi in quella iperlaboriosità ansiosa, aggressiva e incolta che contribuisce a distruggere il territorio e le persone. Il denaro sembra agire solo da palliativo per una malattia dell’animo piu’ profonda, una ferita che difficilmente la facciata della ricchezza materiale può riuscire a colmare.