Sull’efficienza e sull’autenticità
Non stupisco di sorprendermi di quanto si siano velocizzati e “professionalizzati” i ritmi
di vita negli ultimi anni. Anche in un contesto culturale come quello italiano, in cui relativamente all’Europa nordica persiste un’attitudine più relazionale e spontanea, si è diffuso un impulso verso la programmazione e l’efficienza.
L’utilizzo della tecnologia è diventato clamorosamente pervasivo sia nella sfera privata che in quella produttiva. La ricchezza di informazioni e comunicazioni ci consente di valutare tutto e di tenere tutto sotto controllo, andando ad aumentare la pressione e le aspettative che percepiamo dall’ambiente sociale circostante e che creiamo per noi stessi.
La nostra mentalità sta cambiando, così come la velocità in cui facciamo le cose. All’incremento degli stimoli esterni percepiamo di avere meno tempo a disposizione per fare le cose; l’aumentare dello standard percepito in cui esse vanno fatte ci induce maggiore tensione e concentrazione nel farle. Il sogno tecnologico americano di rendere massimamente produttiva, efficiente e professionale la nostra vita quotidiana e lavorativa sembra portare i suoi frutti.
Se questo è lo stato dell’arte, vale la pena cercare di comprendere a fondo che cosa ciascuno di noi stia guadagnando, e che cosa stia invece perdendo o perlomeno trascurando in questa fase di sviluppo della nostra epoca moderna (l’“iper-modernità”). Per procedere nella riflessione prendo spunto dalla recente esperienza di frequentatore di un bell’hotel di Rimini, per brevissimi soggiorni in occasione dei miei insegnamenti presso l’Alma Mater in quella sede.
Si tratta di un ambiente ad alto comfort (moderno, pulito, ordinato, comodo nel mobilio) e con un servizio non solo puntuale ed efficiente, ma anche generoso nella qualità (raramente mi capita di fare colazioni migliori…). Eppure, mi dico, manca qualcosa, ovvero il calore umano di coloro che si pongono al mio servizio: sull’onda del culto dell’efficienza (a cui io stesso contribuisco) ci riesce più difficile incrociare lo sguardo, entrare per un momento in sintonia, scambiare una parola in più, emanciparci da un percepito senso di tensione e pressione. Attenti a fare le cose di maniera veloce, impeccabile, da protocollo, a volte trascuriamo l’importanza di rilassarci, di respirare, di aprirci a un sorriso che ristora.
Riempiendo la relazione umana di connotati professionali e “transazionali”, rischiamo di renderla più fredda e arida, ovvero meno capace di nutrirci nel profondo. Se è vero che la nostra anima è costantemente alla ricerca di connessione, autenticità, naturalezza e calma, la cultura dominante dell’attuale congiuntura storica esalta invece il senso di eccitazione della performance individuale e dell’efficienza collettiva. Ci rende più difficile dedicare autentica attenzione alle relazioni umane, così come a quelle con l’ambiente più ampio (sociale e naturale) che ci circonda.
Credo che la Vita stia cercando di insegnarci qualcosa attraverso tutto questo, invitandoci a una riflessione più profonda sulla necessità di maturare il nostro livello di consapevolezza. Occorre chiedersi in che cosa esattamente la spinta all’efficientamento stia migliorando la qualità del nostro agire e del nostro sentire, e che in modo possa essere messa al servizio di un progetto di vita che sia soddisfacente di maniera intima, autentica, di beneficio per tutti.
Al contempo, potremmo cominciare a lasciare andare gli eccessi, recuperando momenti di gratuita qualità per noi stessi, per coloro con cui siamo in relazione, e per le organizzazioni a cui appartiamo. Può esserci di grande aiuto, e forse risulterà inevitabile, alzare lo sguardo oltre le società occidentali e occidentalizzate, contaminando la nostra mentalità con quella di altre culture del mondo.