Dal paradigma industriale al paradigma naturale
Più proseguo nel mio cammino di comprensione della società in cui viviamo, più mi rendo conto di come il modello di pensiero dominante sia un’eredità dell’era industriale. Nonostante i segnali di apertura verso un nuovo paradigma, quest’ultimo non ha ancora preso forma compiuta, testimone il fatto che non riusciamo ancora a definirlo con un termine proprio ma solo in contrapposizione con il conosciuto (parliamo quindi di epoca “post-industriale” e più in generale di “post-modernità”).
Se dovessi mettere in fila le principali caratteristiche del mindset industriale, elencherei le seguenti:
(1) prevedibilità (2) controllo (3) centralizzazione decisionale, impostazione top-down (4) standardizzazione (5) massimizzazione (6) perfezione come assenza di errore rispetto allo standard.
Tali caratteristiche sono anche valori relativi, e in quanto tali hanno generato nel tempo degli ambiti di resistenza e di contro-valore da cui sembra prendere forma un paradigma alternativo:
(1) tolleranza dell’incertezza (2) fiducia (3) decentralizzazione decisionale, emersione bottom-up (4) personalizzazione (5) ottimizzazione
(6) accettazione dell’errore come opportunità evolutiva.
La mentalità industriale viene a definirsi in un’epoca in cui i progressi tecnologici offrono l’opportunità all’essere umano di espandere quello che più desidera, senza un equivalente sforzo in termini di lavoro fisico. Si punta quindi a far crescere la disponibilità e la varietà di cibo e di vestiario, l’aspettativa di vita, le opportunità di mobilità, le tecniche e procedure che in tutti i settori consentono di risparmiare tempo e fatica. La tecnologia assume un potere magico, quello di abilitare la manifestazione e la crescita degli oggetti del desiderio, denaro incluso, oltre che il numero di persone che ne fanno richiesta. Il circolo virtuoso contribuire a rendere la crescita un fine in sé stesso, plasmando una nuova mentalità che punta a produrre più velocemente possibile quante più cose possibile. Complice la rigidità della tecnologia, viene naturale definire degli standard e replicare le attività in serie.
Proprio mentre scrivo queste cose, mi rendo conto di come quel sogno di un tempo sia ancora il sogno predominante di oggi, nonostante nel frattempo le condizioni di contorno siano completamente cambiate. La matrice industriale trova tuttora applicazione in tutti le sfere sociali: dagli ambiti di governo (imperniati sui concetti di “stato” e di “legge”) a quelli del commercio (“azienda”, “prodotto”) e dell’educazione (“scuola”, “corso”), si ragiona ancora prevalentemente di maniera industriale, privilegiando la standardizzazione sulla personalizzazione. Fare le cose uguali per tutti, e con poca considerazione per la giusta misura ma puntando sempre al massimo quantitativo, risulta più facile. Richiede un tempo minore per lo studio e la valutazione, attività intellettualmente e moralmente impegnative.
Siamo però arrivati a un punto tale nel processo di evoluzione umana, che non è più possibile trascurare quella crisi umana, ecologica e sociale originatasi e accresciutasi come portato diretto dell’ideologia industriale. Ci si rende sempre più conto che occorre recuperare un modo più naturale di fare le cose, in cui non l’uomo non necessariamente si impone con la forza sul mondo che lo circonda (attraverso l’utilizzo indiscriminato di tecnologie e tecniche), ma rispetta le condizioni all’interno delle quali si trova (riscoprendo il proprio potere più autenticamente creativo e adattivo). Da questo punto di vista, sempre più esperti guardano al mondo naturale come nuova frontiera dell’inventiva umana, ovvero come serbatoio di idee e soluzioni e in ultima istanza come depositario di una nuova mentalità (o meglio, di una cultura antica come l’uomo stesso, già utilizzata con successo dalle civilizzazioni del passato).
Credo che oggi più che mai occorra accelerare il passo da un paradigma industriale a un paradigma naturale, in tutte le sfere di vita. Occorre prendere consapevolezza che esistono sempre delle alternative per fare le cose, qualora ci si apra a un ventaglio più variegato di approcci, si abbracci una mentalità più pragmatica e meno ideologica (anche e soprattutto nei confronti delle tecnologie/tecniche stesse), e ci si presti con più flessibilità alle nuove esigenze di adattamento. Occorre rendersi conto che, in un mondo tanto vario e diverso come il nostro, un approccio rigido e monolitico produrrà sempre degli effetti indesiderati.
Basta guardarsi intorno e riflettere: l’ultima considerazione al riguardo l’ho fatta proprio ieri a partire dal corso di nuoto frequentato da mia figlia. Proporre le stesse attività nello stesso modo verso tutti i bambini penalizza coloro che inizialmente manifestano maggiore disagio: questi ultimi si troveranno forzati a vivere un’esperienza poco piacevole, nell’assunzione che tanto prima o poi anche loro si adatteranno (a quale costo però?). In questo caso basterebbe diversificare anche leggermente la pedagogia, utilizzando l’opportunità delle fasce orarie per ri-raggruppare i bimbi che manifestano bisogni e attitudini diverse.
Modificare una mentalità radicata, tuttavia, non è operazione ne’ facile ne’ tanto meno immediata. Se siamo cresciuti nella convinzione che occorre acquisire una certa disciplina di comportamento e di vita (imparando a stringere i denti verso la “dura realtà” del mondo), interpreteremo la difficoltà di alcuni non come segnale che per loro potrebbe essere necessario un altro percorso, ma piuttosto come deficit da colmare attraverso un’esposizione ancora più intensa alla disciplina stessa.
Occorre quindi prendere consapevolezza che il cambio di mentalità richiesto può essere percepito come sbagliato da chi per tutta la vita ha vissuto in ambienti diversi dal nostro. Occorre altresì rispettare questi timori, per non incappare noi stessi nel paradigma da cui abbiamo deciso di emanciparci: forzando la mano verso il modo di fare che consideriamo più evoluto, diventeremmo noi stessi i fautori di un approccio standardizzato! Continuando con l’esempio del corso di nuoto, tutto quello che a mio avviso potremmo cercare di fare è discutere con gli istruttori la possibilità di introdurre una diversificazione degli approcci, ma se le cose non funzionano sarà nostro “dovere” cercarci una piscina diversa che accolga la nostra idea o funzioni in accordo con il paradigma in cui crediamo.
In ultima istanza, mi sembra di poter concludere che il nuovo approccio naturale di cui in molti oggi sentono così fortemente il bisogno non possa che nascere in autonomia, piuttosto che in contrasto, con quello industriale. A un certo punto sarà necessario emanciparsi da un mindset critico che è di certo indispensabile per risvegliare le coscienze ma che, per sua natura, alimenta esso stesso ciò che cerca di combattere. Occorre una rivoluzione entusiasta ed imprenditoriale, una rivoluzione che, in qualche misura, è già in corso.