Filippo Dal Fiore

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Umanisti contro tecnici

January 22, 2009
mitseal
5 anni fa, iniziando un dottorato PhD in economia applicata, ho deciso di saltare a bordo della carovana rivale dei “tecnici”. Dopo gli studi e i primi progetti di ricerca nelle discipline della comunicazione, mi sembrava di non riuscire piu’ a sopportare i lati che consideravo negativi degli umanististi: inclinazione alle generalizzazioni, difficolta’ a vedere i dettagli, testa sulle nuvole…
Lasciando una culla dell’umanesimo, l’Italia, ho iniziato a gravitare verso le piu’ “empiriche” terre dell’Olanda e degli Stati Uniti.

Sentivo che la mia formazione “qualitativa”, fondata sulla narrazione, andava completata con quella “quantitativa”, fondata sull’osservazione dei fatti. Basta parlare di punti di vista ma di piuttosto di assunzioni. Stop all’estetica e alla ricercatezza nel linguaggio, via libera alla precisione e all’univocita’ dei significati. Basta occuparsi del “rapporto tra l’utilizzo di tecnologie mobili e sostenibilita’ ambientale”, ma piuttosto il tema del PhD diventa “misurazione dell’impatto dell’uso di telefoni cellulari e laptop sul comportamento umano di mobilita’”. Imparo quello di cui sono alla ricerca, con soddisfazione.

I colleghi si occupano in modo eccellente di sviluppo di tecnologia. Attraverso di loro scopro che un fine ultimo dell’ingegnere e del tecnico e’ quello di fare succedere le cose, “make things happen” come dicono negli Usa. Fondamentale e’ il “workflow”, inperniato su un ragionamento lineare e incrementale: da A passo a B, da B passo a C, da C arrivo al risultato.
Non c’e’ bisogno di porsi domande, se questo e’ il modo in cui le cose funzionano: il perche’ e’ sotteso nella catena degli eventi. A volte ho l’impressione che se a un tecnico chiedessi “perche’ tutto questo succede?” potrebbe rispondermi “perche’ e’ cosi’”.
Se A e’ necessario quanto B e C per raggiungere il risultato, se tutto e’ importante allo stesso modo, non esiste essenziale e superfluo e potrebbe essere difficile darsi delle priorita’. Paradossalmente, potrebbe contare di piu’ arrivare da qualche parte nel modo giusto, piuttosto che arrivare nel posto giusto ma con il metodo sbagliato. Il metodo e’ piu’ importante del fine.
Il portato di questa conclusione, per quanto essa sia necessariamente parziale e semplicistica, potrebbe avere vaste implicazioni per come gira il mondo industrializzato di oggi.

Quello che mi sembra manchi a molti tecnici rispetto agli umanisti, e’ l’abitudine a chiedersi il perche’ si faccia quello che si fa e dove si voglia veramente arrivare, a volte non distinguendo l’essenza dal dettaglio e finanche il bene dal male. Se gli umanisti si chiedono “quale societa’ vogliamo costruire?”, i tecnici sposano la stessa filosofia che ci propone la Nike: “Just do it!” (semplicemente, costruiscila!). Per molti tecnocrati e economisti che governano il mondo, va sempre bene cosi’. Probabilmente, invece di chiedersi se fosse giusto o sbagliato quello che facevano, molti finanzieri artefici della recente bolla speculativa si crogiolavano dei propri metodi sempre piu’ avanzati di ingegneria finanziaria. I soldi che arrivavano non facevano altro che confermarne la bonta’, piuttosto che sollevare dubbi morali.

In ogni caso, quello che credo sia certo e’ che al mondo servono sia gli umanisti che i tecnici.
Senza i giusti fini prendiamo la strada sbagliata, ma senza il giusto metodo facciamo ben pochi passi. Una ragione in piu’ per considerare fondamentale l’interdisciplinarieta’, che pero’ dovrebbe essere prima di tutto interdisciplinarieta’ personale, relativa alla formazione di una stessa persona. Potrebbe non bastare mettere insieme persone di discipline diverse, per il rischio che gli umanisti si alleino con gli umanisti e i tecnici con i tecnici.

Speriamo che nel futuro agli umanisti e ai tecnici si affianchi anche chi li possa far comunicare.

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