La rivoluzione della sostenibilità (2): sul liberismo
Riprendo l’argomento sostenibilità con una riflessione sul liberismo, filosofia che ha lasciato carta bianca all’iniziativa privata a discapito di qualsiasi regolamentazione pubblica. Sedotti dal potere magico dei mercati di crescere e auto-alimentarsi, i liberisti arrivano ad affermare che l’iniziativa individuale non regolamentata si auto-corregge (grazie della “mano invisibile” dei mercati) generando un sistema massimamente efficiente. La voce della collettività, espressa attraverso la politica e le leggi, va contenuta al massimo, così da non interferire nel funzionamento dei mercati. E’ quindi in ultima istanza necessario ridurre la politica a beneficio dell’economia, o declinarla a servizio dell’economia.
La realtà ha purtroppo smentito le metafore e le pie illusioni (wishful thinking). Il mondo non è ancora pronto al liberismo, per quanto gli esseri umani possano giustamente avere a cuore istanze e sentimenti di libertà. Il lasciare piena libertà di azione alle aziende fa sì che queste abusino degli interessi degli altri a proprio favore. Sotto le pressioni e le distrazioni di un regime competitivo – ovvero, in qualche modo, di guerra – gran parte delle aziende dimostra di non essere in grado di prendere in adeguata considerazione la volontà di tutti coloro che sono direttamente o indirettamente impattati dalle proprie scelte. L’assenza o lo smantellamento delle normative (deregulation) rende il campo di battaglia ancora più selvaggio, esacerbando comportamenti dannosi verso l’interesse di altri privati considerati concorrenti, così come verso il più ampio di interesse della collettività.
Il risultato, lungi da essere un sistema efficiente, è un sistema vastamente inefficiente in cui vengono perpetuati danni di tutti i tipi alle comunità locali, all’ambiente, e in ultima istanza agli stessi individui e aziende che ne sono protagonisti. Un tale sistema consuma e spreca le risorse, invece di utilizzarle di maniera efficiente. Si prenda il caso del mercato immobiliare, uno di quelli che più platealmente impatta sull’attuale sostenibilità mondiale dal momento che la sua crescita comporta un consumo diretto di suolo e di natura. Consideriamo per semplicità il caso dell’Italia: stando ai dati ISTAT nei 42 anni che intercorrono dal 1971 al 2013 il Paese cresce solo di alcuni milioni di abitanti, passando da 54 milioni a poco meno di 60 milioni. La costruzione di nuovi alloggi, però, non procede di pari passo ma ben più rapidamente, perseguendo tassi di crescita anno su anno e consumando molto più suolo di quanto ne fosse necessario. Stando ad altri dati ISTAT, il numero di alloggi registra una crescita complessiva dell’ordine del 5% – simile a quella che la popolazione registra in oltre 40 anni – in soli 10 anni dal 2011 al 2011!
Proliferano di certo le seconde case e gli alloggi per i turisti, ma gli sprechi rimangono mastodontici. Quando lasciate libere di fare quello che vogliono in proprietà dichiarate private, le imprese edili non puntano a ristrutturare o ricostruire gli alloggi esistenti, ma ne costruiscono di nuovi su suolo vergine. Ereggono molti edifici frettolosamente, con poca attenzione all’estetica e alla qualità, con ripercussioni negative sugli edifici circostanti e cementando aree verdi di cui tutti beneficiano. Costruiscono dove e quando hanno l’opportunità di farlo, senza una cognizione precisa dell’effettivo bisogno. Speculano, falliscono, emigrano.
La storia del mondo di oggi assomiglia molto a quella del mercato immobiliare italiano. Più lasciamo i mercati incontrollati – e spesso anche incentivati – più aggraviamo l’attuale situazione di collasso ambientale e impoverimento sociale. Più ci intestardiamo a pensare che facendo l’interesse privato facciamo anche quello pubblico, più concediamo proprietà private libere da ogni vincolo di responsabilità verso la collettività, più continueremo a trovarci difronte alle cose più bizzarre e controproducenti dal punto di vista sistemico. Mi domando: chi può veramente arrogarsi il diritto di fare quello che vuole in un pezzo di mondo che considera di sua “esclusiva priorità”, senza pensare a tutti coloro che si troveranno impattati dalle sue scelte?
Il mondo appartiene a tutti, e come tale ci dovrebbe essere affidato in gestione per il beneficio di tutti. Si tratta a mio avviso di buon senso, non di “comunismo”, e mi auguro con tutto il cuore che presto l’umanità si emancipi da vecchi tabù e paure che ci impediscono di vedere le cose per come stanno, impedendoci di evolvere. I paesi Scandinavi e del Nord Europa ci insegnano che è anche e soprattutto attraverso una regolamentazione estesa e intelligente, proposta a beneficio dell’intera collettività, che si riescono a creare le premesse migliori per la convivenza civile e la salvaguardia dell’ambiente. Gli esempi virtuosi sono già sotto gli occhi di tutti, tutto quello che dobbiamo fare è aprirli.
Ed è così che a partire da un corso di sostenibilità aziendale mi trovo ora a scrivere di gestione della cosa pubblica. Mi sto sempre più convincendo che dovremmo partire da qui per cambiare il mondo, una realizzazione che nella sua ovvietà risulta però distante dal punto di osservazione di chi come me si occupa di economia ed imprese. Il nostro oggetto di osservazione è in realtà il prodotto di altre sfere sociali e psicologiche: per cambiarne la manifestazione è necessario risalire ai fondamenti.