Filippo Dal Fiore

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Blog

Economia contro territorio

January 15, 2016
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E’ il giorno di Natale. Ci svegliamo prima dell’alba perché ci attende un viaggio di famiglia a Parigi. Pochi chilometri ci dividono dall’Aeroporto Marco Polo di Venezia, e io già temo la situazione che mi si parerà davanti. Da qualche anno questo aeroporto affacciato sulla Laguna di Venezia è in espansione, anche attraverso l’ampliamento dei parcheggi e delle strade di confluenza. A farne le spese è un vasto bosco, mantenuto da decenni e uno dei pochi residuali in questo territorio pianeggiante: tutto il resto se ne è già andato per far largo a spazi agricoli, industriali e abitativi di ogni tipo.

Me lo aspettavo un nuovo colpo al cuore: dopo aver assistito al progressivo rimaneggiamento del pioppeto, ora è la volta della pineta marittima, tanto più preziosa quanto più rara da queste parti. La foresta di alberi si trasforma piano piano in foresta di automobili parcheggiate tra gli alberi. Anche il resto del verde a ridosso della strada statale Triestina viene pesantemente rimaneggiato, per far posto a un pezzo di tangenziale a doppia carreggiata con tanto di mega-rotonda di accesso all’Aeroporto. Un’opera sproporzionata e non necessaria nel presente, tale e quale molte altre che da qualche anno a questa parte si vedono spuntare come funghi nelle pianure del Veneto.

Non credo di essere l’unica persona toccata da vicino dallo scempio del Marco Polo. Ci andavamo con la scuola, da bambini, alla pineta dell’aeroporto. Il resistere di quella e di altre aree boschive forniva un contributo importante alla purificazione dell’aria, in una zona in cui soffia poco il vento e quindi destinata a essere fortemente inquinata. Il senso di soffocamento è accentuato sul piano visivo dal crescere violento e disordinato di ogni genere di opera in cemento in zone di campagna: la prospettiva risulta sempre più schiacciata, non si riesce più a guardare lontano.

L’Aeroporto, però, ha bisogno di crescere, così ci raccontano gli enormi cartelloni pubblicitari a ridosso dell’area partenze. Sempre più, su Venezia, confluiscono interessi e investimenti: con l’espandersi del numero di persone benestanti nei paesi di recente industrializzazione (in particolare i cosiddetti BRICs, Brasile, Russia, India e Cina) le richieste di visita aumentano e il potenziale economico dell’Aeroporto cresce. Nuove compagnie aree coinvestono in questo scalo, e il settore turistico locale spalleggia l’espansione. Da un punto di vista strettamente economico, la scelta è ovvia: perché non crescere?
Sul piano politico, però, la domanda andrebbe riformulata al contrario, ovvero: perché, e soprattutto per chi, crescere?

Per la maggioranza degli abitanti del territorio veneziano, una tale crescita turistica indiscriminata non è certamente cosa positiva: il sovraffollamento di Venezia sta violentando la città e il suo fragile ecosistema in misura inedita. La stessa società veneziana, erede di una cultura unica, sta fisicamente scomparendo: i giovani veneziani continuano ad emigrare anche perché non riescono a competere con i facoltosi stranieri nell’acquisto di case e locali in città; i proprietari attuali vendono al miglior offerente, chiunque esso sia. L’esempio di Venezia e del Veneto è quindi un caso eclatante di territorio letteralmente (s)venduto, ovvero amministrato secondo logiche prettamente economiche, mettendo ai margini considerazioni di tipo politico, demografico, ambientale, sociale, culturale e filosofico.
In tale sistema non c’è democrazia: se si fosse proposto un referendum relativamente all’espansione dell’aeroporto a danni dell’ambiente e della vivibilità, la maggior parte degli abitanti si sarebbe espressa negativamente.

Viviamo, però, in una società fortemente ideologizzata in termini modernisti ed economisti. Il dibattito pubblico è dominato dai temi del lavoro e della disoccupazione, una chiave di lettura molto limitata che impone una generica crescita come unica via di uscita.
Via libera, quindi, all’espansione dell’aeroporto per la creazione di posti di lavoro che questa operazione comporta. Il punto non è crescere indiscriminatamente, il punto è fare crescere nel territorio le cose che vogliamo far crescere, e far decrescere le cose che vogliamo vedere ridotte. Se su questo ci si concentra, sarà più facile generare delle idee utili e autenticamente proprie, investendo le risorse a disposizione e generando nuova occupazione in ambiti di interesse autenticamente pubblico: il risanamento dell’ambiente, l’artigianato culturale, il turismo educativo e sostenibile, l’integrazione sociale e multi-culturale. Si tratta in fin dei conti di una strada di buon senso già imboccata con successo da molti altri territori europei, a partire dal vicino Trentino Alto Adige.

E’ ormai fin troppo chiaro che il modo in cui la globalizzazione viene attualmente promossa è troppo rapido, violento, e incentrato sugli interessi di una fascia molto ristretta della popolazione. I danni potenziali crescono proporzionalmente alla quantità di denaro e di tecnologie in circolazione: se cinquanta anni fa occorrevano anni per tramutare un’area verde in ambiente costruito, ora bastano pochi mesi. Se a quel tempo tale strada rappresentava un onore riservato a poche sezioni di un territorio, ora sembra incombere sulla maggior parte di esso. La globalizzazione della crescita rappresenta letteralmente una macchina distruttiva fuori controllo, un Frankenstein seduttivo verso quei territori che non hanno completato un percorso autenticamente democratico, laddove cioè le scelte pubbliche si piegano troppo facilmente agli egoismi dei privati, e laddove non esistono dei meccanismi istituzionali per prevenire questo.
Territori in cui non esistono limiti rispetto alla quantità di territorio tramutabile da pubblico a privato, o viceversa: immagino che, se interpellata, la maggior parte della popolazione locale avrebbe reclamato i boschi dell’aeroporto come bene pubblico!

Laddove non trova adeguata resistenza, governo o semplicemente amor proprio, la globalizzazione della crescita travolge inevitabilmente anche le culture locali. Rimango di stucco nell’osservare come l’Aeroporto di Venezia abbia sposato l’inglese come prima lingua, seguito dall’italiano, e come i prezzi nei negozi di si stiano uniformando a quelli di altri aeroporti “world class”, con i prezzi al bar espressi in 99 centesimi (es. 1 EUR 99 Cent). Una brutta cosa, mai vista in Italia ma tanto se lo fa London Heathrow allora si può fare, anzi siamo più al passo con i tempi. Spesso sono gli stessi suoi proponenti della crescita globale che non conoscono, non vivono, e non amano autenticamente i territori su cui vanno a operare. Trascorrono la maggior parte del tempo nei loro contesti aziendali, viaggiando per il mondo all’interno di una bolla mono-culturale, parlando acriticamente inglese e pensando acriticamente in americano.

Arrivo a Parigi, e mi rendo conto che la bellezza di questa città si sia conservata nel tempo anche perché protetta dalla comunità e dalla politica locali, che si sono battute per salvaguardare la vivibilità, la cultura, l’ambiente e l’artigianato. A beneficio di tutti: certamente dei suoi abitanti, ma anche dei visitatori, che continuano ad arrivare numerosi anche e soprattutto perché qui, a diversamente ad altri luoghi del mondo, la bellezza, la cultura e il buon vivere hanno un valore più alto dell’economia fine a sé stessa. Evidentemente in questa città esiste una forte cultura civica e uno speciale amore di tutti verso il territorio. I cittadini hanno gli strumenti e la consapevolezza per fare sentire la propria voce.

Mai come oggi il tema dello scontro tra economia e ambiente, naturale e sociale che sia, è attuale e coinvolge tutto il mondo, alla ricerca di equilibrio e giusta misura. I colossali cambiamenti climatici e demografici in corso non sono che un’esortazione a migliorare, ad evolversi, ad aprire gli occhi verso la verità delle cose piuttosto che farci abbagliare dalle ideologie.

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