Società fondata sul lavoro o distrutta dal lavoro?
Arriva l’ora di pranzo e indugio più del solito a tavola con amici o colleghi, coinvolto in conversazioni socialmente utili e personalmente distensive. Ritorno al lavoro scrutando l’orologio, dicendomi che avrei dovuto fare prima e in generale, quando possibile, dovrei semplicemente fare il mio dovere di persona produttiva, invece di perdermi in fronzoli.
E’ sbagliato chiedersi se ci sia un urgente bisogno di fare chissà che cosa, non importa che io non debba timbrare nessun cartellino in quanto libero professionista, quello che conta è lavorare per non sentirsi in colpa per non averlo fatto.
E’ interessante a questo punto notare come questo insidioso senso di colpa che credo accumuni molti di noi sia slegato dal generale contributo che diamo alla collettività. Tipicamente, il tempo sottratto al lavoro è un tempo dedicato alle relazioni sociali e al benessere personale, due condizioni indispensabili per funzionare bene in società. E’ più importante trascorrere una mezzora in più con i propri figli, nella propria comunità, o dando ascolto e compagnia a un amico, o mezzora in più lavorando a chissà quale ennesima attività? Vale veramente la pena lavorare quanto più possibile, quindi in condizioni di assuefazione o di stress, piuttosto che porci un limite puntando su maggiore qualità, presenza mentale (mindfulness) e attenzione agli altri?
In molti casi, purtroppo, le persone non si possono permettere grandi sperimentazioni, perché sono chiamate ad adeguarsi alla cultura che vige nel proprio ambiente di lavoro. Da questo punto di vista, le cose potrebbero essere peggiorate con l’avvento degli uffici open space: non solo ci si controlla a vicenda sugli orari di ingresso e di uscita, ma anche sull’effettivo tempo trascorso davanti al proprio schermo del computer. Nei paesi più industrializzati, inoltre, siamo vittime di una concezione quantitativa del tempo strettamente connessa a quella del denaro: laddove “il tempo è denaro”, le persone tendono misurare il proprio valore, così come il rispetto percepito dagli altri, con la quantità di soldi che guadagnano nell’entità di tempo. A ben vedere, il senso di colpa per non sentirsi produttivo potrebbe essere accompagnato da un altro preconcetto ancora più profondo e sottile: se non lavoro non valgo come persona, e tutto quello che faccio al di fuori del lavoro (famiglia, comunità, amici, benessere personale) non producendo reddito non merita altrettanta attenzione, ma minaccia di distrarmi da quello che veramente conta. Da parte mia, ritengo di avere fatto un eccellente lavoro per emanciparmi da queste nozioni nel corso degli ultimi anni, ma credo che molte persone specie di sesso maschile e in posizioni di leadership siano ancora succubi, loro malgrado, di questa mentalità. Una mentalità che svolgeva una precisa funzione sociale cento o cinquanta anni fa, quando eravamo materialmente poveri e tutto quello che dovevamo fare era rimboccarci le maniche, produrre quanto più possibile e generare ricchezza. Allora, aveva senso.
Nelle società avanzate di oggi, però, viene a mancare il bisogno sottostante: al contrario, l’avvento di tecnologie e metodologie sempre più avanzate, così come la ricerca opportunistica di economie di scala e di accorpamenti produttivo-finanziari, rende il lavoro da fare sempre più scarso. I numeri della disoccupazione giovanile nei paesi avanzati confermano che già il presente, che ci piaccia o meno, si presenta profondamente diverso dal passato. Si tratta però anche di una grande occasione per ridefinire più realisticamente le categorie culturali di merito personale, contribuendo a sedare l’ansia quantitativa delle persone e rieducandole a un approccio più qualitativo e socialmente utile nell’utilizzo del proprio tempo.
Purtroppo, quello che sta succedendo sembra essere il contrario, e viene quotidianamente alimentato dalla paura diffusa attraverso i media: l’instabilità del lavoro, insieme alla disponibilità di tecnologie pervasive attraverso le quali è possibile essere sempre produttivi, induce buona parte di noi a lavorare ancora di più, il più delle volte in modo più reattivo, indiscriminato e poco performante. Diventare imprenditori di noi stessi dovrebbe restituirci più capacità di scelta e di pensiero, ma se lasciati soli potremmo invece finire per sposare ancora di più il limitante credo del “siamo quello che facciamo” (veramente, siamo molto di più!).
Le conseguenze collettive di tale ossessione sul lavoro non possono che essere nefaste, dal momento che una società in cui sempre più persone trascurano le relazioni famigliari, amicali e comunitarie è una società destinata a sfaldarsi, restituendoci sempre più solitudine ed egoismo. Prima ancora di ritrovarci ad essere una società distrutta dal lavoro, è forse quindi meglio ridiscutere collettivamente le premesse della nostra società fondata sul lavoro. Cosa vuol dire, dopo il percorso fatto fino a qui e nel mondo globale di oggi, considerarsi una società di questo tipo? Quali nuovi significati vale la pena riassegnare al concetto di “lavoro”? Su quali altri valori vogliamo che la nostra società poggi le proprie fondamenta? Quali modalità, tipologie e contesti lavorativi vogliamo veramente promuovere? Verso quali altri dovremmo attribuire più rispetto sociale e quindi anche compensi più alti? Ha senso buttarci a fare più soldi possibile, se poi non abbiamo il tempo, la calma, la cultura e forse nemmeno la compagnia per goderceli?
Fino a quanto non affronteremo apertamente e onestamente queste domande, non potremo che restare vittime innocenti dei vecchi pregiudizi, afflitti da sensi di colpa e intenti a salvaguardare l’autostima attraverso il tempo che trascorriamo in ufficio e i soldi che portiamo a casa (ma non per l’attenzione e il tempo dedicato a noi stessi, agli altri e alle nostre famiglie).
La maturazione culturale che ci richiede la nostra epoca potrebbe però arrivare prima di quanto possiamo immaginare. Per loro natura, i Paesi Scandinavi e in parte anche quelli Germanici sono a uno stadio di transizione più avanzato. Nel resto del mondo, invece, molto forse dipenderà dall’ascesa di nuovi educatori e leader appartenenti alle nuove generazioni e a culture non occidentalizzate. Il mio augurio è che siano loro le nuove “persone di valore”, coloro che ci aiuterano a emanciparci da vecchi preconcetti che ancora diffondiamo a tutti i livelli, a partire dagli ambienti educativi e della morale religiosa. Proprio i giovani demotivati di oggi potrebbero un giorno aiutarci a scoprire altri aspetti nobilitanti del lavoro, dopo che per tanto tempo in occidente abbiamo enfatizzato soprattutto dovere, dedizione e sacrificio.
Nel frattempo, credo che stiamo assistendo a un’epocale “Race to Nowhere”, per volere riprendere il titolo di un film di grande successo sulla devastante “corsa forsennata verso il nulla” promossa dall’iper-competitivo sistema scolastico americano.
Ora però si è fatto tardi: spengo il computer e senza tanti sensi di colpa me ne torno a casa. Mi attendono cose altrettanto importanti da fare.
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