Cultura del fare contro cultura del sapere
Mi appresto a concludere un mio lavoro di analisi scientifica delle pratiche di lavoro e collaborative di alcune aziende manifatturiere del Veneto. La mia impressione e’ che si tratti di ambienti molto grintosi in cui domina la cosiddetta “cultura del fare”: l’importante e’ agire e produrre risultati concreti nel piu’ breve tempo possibile, piuttosto che fermarsi a pensare e a capire le cose. Non c’e’ spazio per una “cultura del sapere”, quella che privilegia la conoscenza e la presa di consapevolezza prima dell’azione, ma che non appare immediatamente utile.
Per molte persone, le due culture tendono a escludersi l’una con l’altra. O si e’ una persona concreta “con i piedi per terra”, o una persona di cultura “benpensante”. La strada della pratica porta da una parte, la strada dell’intelletto da un’altra. Nel contesto italiano e in molti altri, il divario appare spesso incolmabile e di riverbero molto ampio: non solo realismo contro idealismo, ma anche destra contro sinistra, falchi contro colombe, settore privato contro settore pubblico, aziende contro scuola e accademica. I pregiudizi reciproci sono forti e fanno molto male: gli uni vengono tacciati di ignoranza, gli altri di inutilita’.
Forse capendo meglio il pregiudizio, e’ piu’ facile capire cosa tenga distanti le due culture. In generale, sembra innescarsi un pregiudizio quando il tratto piu’ estremo della controparte, ovvero quello che meno piace, induce a squalificarne l’intera posizione. Spaventato dall’aggressivita’ e dall’insensibilita’ dell’uomo di pratica, io benpensante mi chiudo verso quello che di buono ha da dirmi. Spaventato dalla sprezzanza e dalla futilita’ dell’intellettuale, io uomo di pratica faccio altrettanto. Ma siamo anche spaventati entrambi di realizzare che quella dell’altro in fin dei conti e’ anche una virtu’ che a noi manca. Ascoltiamo tenendo le antenne alte per il pericolo: “eccolo li’ l’intellettualone o il praticone, ora so dove vuole arrivare” ci diciamo, e da quel momento in poi squalifichiamo o reinterpretiamo quello che arriva. Non ci basta comunicare per capirci, e senza comprensione non riusciamo a sviluppare ne’ rispetto reciproco ne’ autoconsapevolezza.
Il problema del pregiudizio e’ che tiene le persone fisicamente lontane, e questo scarso contatto ci priva dell’opportunita’ dell’apprendimento reciproco. Come risultato, perseveriamo nel nostro approccio limitato. “Miope” e “semplicistico” quello degli iper-pratici: esiste solo cio’ che vedo, ovvero i sintomi piu’ superficiali della realta’ (atteggiamento riduzionista). Idealizzato e complicato quello degli iper-teorici: vedo anche quello che non c’e’, soprattutto quello che mi piacerebbe vedere (atteggiamento di “wishful thinking”). Il problema si aggrava ulteriormente quando cediamo all’auto-compiacimento per il nostro approccio, ovvero ci convinciamo che quello che serve e piace a noi e’ quello di cui ha bisogno tutto il mondo. Diventiamo piu’ auto-referenziali e piu’ egoisti, cominciando a perdere quel buon senso di cui io credo tutti gli uomini siano dotati alla nascita. Non riusciamo piu’ a vedere quello che abbiamo di fronte agli occhi e che qualunque persona esterna alla nostra cultura riuscirebbe invece a vedere. Gli americani direbbero che non si riesce piu’ a percepire “l’elefante nella stanza”.
Le mie sembrano le parole di un filosofo, ma per come la vedo io la filosofia per essere tale dovrebbe essere semplice, pratica e alla portata di tutti. Socrate faceva filosofia dialogando con chiunque, e lo faceva per la sua utilita’ pratica, quella di costruire il senso civico degli ateniesi. Quanti filosofi dopo Socrate, distanziandosi dalla pratica, hanno prodotto eccentriche ed esagerate visioni del mondo?
Se e’ vero come diceva Einstein che “nulla e’ piu’ pratico di una buona teoria”, io credo invece che il mondo odierno abbia piuttosto un disperato bisogno di teorici con i piedi per terra. Di persone di cultura che riescano a reintrodurre i valori della sensibilita’ e della bellezza dentro “il sistema operativo” del mondo moderno, che nella sua esaltazione di funzionalita’ e utilitarismo diventa anche arido e cieco.
Dovremmo cercare di coltivare piu’ equilibrio: piu’ studio per i pratici, piu’ sporcarsi le mani per i teorici. Forse e’ proprio cosi’ che una societa’ puo’ fiorire: quando le persone coltivano insieme realismo e idealismo, riduzionismo e olismo, corpo e spirito. Sognando un futuro migliore pur tenendo i piedi per terra.
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