Copenhagen tornasole del mondo
Copenhagen, 17 dicembre 2009.
I leader stanno per arrivare, comincia il conto alla rovescia verso la conclusione di COP15, inedito summit sui cambiamenti climatici. Il mondo e’ in bilico, l’opportunita’ e’ unica per prendere decisioni in grado di riportare il pianeta su una rotta sostenibile.
Le tensioni negoziali dei giorni precedenti fanno presagire che l’evento potra’ passare alla storia come “fallimento” piuttosto che come “successo”: le aspettative sono grandi, ma sembra un test fin troppo difficile per una tavola rotonda di 192 paesi chiamati ad essere tutti d’accordo sul da farsi.
Il punto piu’ delicato delle negoziazioni riguarda da una parte l’esborso di fondi per combattere il surriscaldamento globale, dall’altra il contenimento di quello sviluppo economico inquinante che continua a contribuirvi. Il problema e’ sorprendentemente chiaro:
- il clima sta cambiando anche per colpa delle attivita’ umane;
- il cambiamento del clima ha conseguenze devastanti, specialmente sui paesi del Sud del mondo che meno hanno contribuito a generarlo;
- e’ necessaria una rivoluzione tecnologica “verde”, insieme alla messa a punto di nuovi incentivi per inquinare meno, insieme al cambiamento comportamentale di tutti.
In misura diversa il problema riguarda tutti, ma il punto e’: chi si sacrifica per risolverlo?
Tutti guardano al paese leader del mondo, nonche’ principale inquinante: gli Stati Uniti. Il congresso sembra far chiare le proprie intenzioni ad Obama: “l’America non paghera’ soldi che finiranno all’estero”. Tale dichiarazione conferma al mondo l’egoismo degli USA, ma il momento non e’ dei piu’ propizi: sbancatasi per salvare le banche, l’amministrazione Obama e’ chiamata a contrastare l’alto tasso di disoccupazione sull’onda lunga del crollo finanziario del 2008.
Il congresso si preoccupa dell’opinione pubblica americana, prima ancora di quella mondiale, perche’ il suo futuro a fine legislatura dipendera’ dalla prima e non dalla seconda. Tale constatazione rivela una grande contraddizione del mondo odierno: siamo chiamati a risolvere dei problemi globali attraverso delle istituzioni – i governi – il cui fine e’ quello di tutelare gli interessi nazionali. Come uscire dall’impasse?
Si potrebbe rispondere: se gli interessi globali coincidessero con quelli nazionali, i governi si allineerebbero nell’affrontarli. Se gli USA avessero sufficientemente a cuore i cambiamenti climatici, si farebbero promotori di un accordo al rialzo. Compresibilmente, invece, l’amministrazione Obama da’ la priorita’ al problema del lavoro per tutti i cittadini americani.
E cosi’ fa anche l’amministrazione cinese. Una volta ancora la questione del lavoro sembra diventare discriminante, anche e soprattutto perche’ al giorno d’oggi una delle piu’ grandi paure dei governi nazionali e’ quella di perdere posti di lavoro a discapito dei paesi contro cui si ritrovano a competere economicamente. Penso alle recenti reazioni del governo tedesco all’annuncio che la multinazionale americana GM avrebbe potuto lasciare fallire la OPEL. Penso alle proteste operaie nei paesi piu’ ricchi contro le delocalizzazioni nei paesi piu’ poveri.
E se i fondi richiesti al summit di Copenhagen aiutassero a creare lavoro nei paesi che li sborsano? Potrebbero essere di sussidio alla creazione della “green economy” di casa propria, finendo nelle tasche degli istituti di ricerca e delle multinazionali esistenti e nasciture, i soli soggetti in grado di produrre soluzioni tecnologiche contro i cambiamenti climatici globali. In parte si potrebbero destinare ad azioni comunicative e educative volte a promuovere i cambiamenti comportamentali per inquinare meno, con conseguente creazione di lavoro in quei settori. Sono probabilmente queste le azioni piu’ facilmente approvabili a livello nazionale.
Tale modello non ci si allontanerebbe molto da quello gia’ utilizzato per combattere la poverta’ in Africa e nei paesi in via di sviluppo: io Stati Uniti ed Europa vi trasferisco dei fondi, anche a patto che voi con questi facciate lavorare le nostre organizzazioni ed aziende.
Il paradosso odierno e’ che c’e’ sempre meno garanzia che i datori di lavoro che recepiscono sussidi nazionali assumano delle persone di quella nazione per fare il lavoro. In un sistema in cui si compete globalmente, prevale la logica efficientistica e tecnocratica: si assumono coloro che sono in grado di portare a termine il lavoro nel miglior modo possibile, piu’ velocemente possibile e per meno soldi possibile. Quale probabilita’ c’e’ che questi super lavoratori si trovino a casa propria?
Ed e’ cosi’ che i governi vanno rassicurati due volte: la prima sul fatto che i fondi pubblici sborsati per le cause globali finiscano anche alle imprese nazionali; la seconda che tali imprese vadano effettivamente a impiegare i connazionali.
Probabilmente, l’unica via d’uscita e’ quella della creazione di un governo globale. Se chi crea e da’ lavoro opera a livello globale, perche’ il governo di queste dinamiche non dovrebbe essere tale? Forse piu’ di ogni altra cosa, il “teatrino” di Copenhagen ci racconta di una missione impossibile, quella di mettere d’accordo la bellezza di 192 paesi sul destino di 1 solo pianeta. La logica egostica su cui i paesi si fondati – prima gli interessi del paese poi quelli di tutti gli altri – non puo’ che palesarsi con sconcertante chiarezza.
Sara’ mai pronta l’umanita’ per il grande salto?
Il progressivo rafforzamento di istituzioni globali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale ci fa pensare che un governo globale stia gia’ prendendo forma, ma probabilmente questi istituti sposano una politica e una filosofia economica che giocano troppo a favore delle nazioni piu’ forti.
Quello che forse manca di piu’ e’ una nuova filosofia al contempo globalistica e altruistica, una mentalita’ da “cittadino del mondo” per il quale gli interessi di tutti e del tutto contino quanto gli interessi propri. Alla domanda “chi si sacrifica?” dovremmo essere in tanti pronti ad offrirsi, gratificati dalla consapevolezza che il nostro sacrificio fara’ il bene del mondo e forse anche di noi stessi. Cosi’ i potenti del mondo, come tutti i loro elettori nella vita di tutti i giorni.
Se serve una rivoluzione, credo che questa debba partire da dentro di noi. E la forza della nuova cultura dovra’ essere tale da riuscire a trovare l’accordo di tutti.
Sull’importanza della questione del lavoro, confronta in questo blog l’articolo su “Fine del lavoro”.
Su quella del governo globale, confronta l’articolo “Mercato comune. Regole diverse”