Copenhagen mostra i suoi limiti: e adesso che si fa?
Ed e’ cosi’ che il summit di Copehagen tradi’ le aspettative e i bisogni del mondo. Sembra che l’accordo non preveda ne’ un tetto massimo di emissioni inquinanti, ne’ una data limite per raggiungere alcuni obiettivi, ne’ sanzioni che vincolino i paesi a rispettare gli impegni.
Cosa potevamo aspettarci da un consesso di 192 paesi che operano in regime di competizione economica tra loro? Forse e’ gia’ un risultato straordinario il fatto che cosi’ tanti capi di stato siano accorsi a Copenhagen, riconoscendo l’importanza del problema e la necessita’ di fare qualcosa, anche a scapito di limitare la competitivita’ delle proprie aziende e la capacita’ di creare lavoro per le persone che rappresentano. In un certo senso, non e’ tanto colpa loro se non l’accordo non ci porta molto lontano, ma del sistema in cui si trovano ad operare.
Una cosa mi lascia perplesso: si parla dei paesi del mondo come suoi principali inquinatori, in primo luogo di USA e di Cina; a ben vedere, pero’, non sono invece le industrie che vi operano e le persone che si avvalgono dei prodotti inquinanti? I responsabili fattuali dell’inquinamento globale sono l’industria automobilistica, quella energetica (specie per le centrali a carbone), quella degli impianti di riscaldamento e condizionamento, quella di produzione di legname attraverso deforestamento, quella delle compagnie aeree. Insieme a tutti noi che guidiamo l’automobile, ricarichiamo i nostri molteplici dispositivi elettronici, teniamo le luci accese, riscaldiamo e raffreddiamo i nostri appartamenti.
Quindi: perche’ al summit di Copenhagen dovrebbero essere protagonisti i capi di stato e non quelli delle multinazionali, delle Shell, General Electric, Wolkswagen ed ENEL di tutto il mondo?
La risposta piu’ ovvia e’ che sono i governi gli enti preposti a stabilire le regole del gioco per le multinazionali e per le imprese nazionalizzate, cosi’ come per i propri elettori. La responsabilita’ ultima delle decisioni spetta a loro. Il problema e’ quello dell’impotenza dei governi rispetto alla volonta’ delle imprese e della societa’ civile: dipendono troppo da loro per schierarvisi contro; sono una loro emanazione e hanno un interesse costituito nella loro permanenza. Perche’ la Cina dovrebbe bandire le centrali a carbone e i SUV? Entrambe le industrie contribuiscono alla creazione di lavoro, agli introiti fiscali, alle tangenti che arricchiscono i politici stessi che dovrebbero limitarne la liberta’ d’azione.
Sembra non esserci via d’uscita.
Per un momento, immaginiamoci pero’ il consesso di Copehagen popolato dagli amministratori delegati di tutte le principali industrie del mondo. Normalmente, le imprese creano alleanze e cartelli per un tutelare i propri interessi e bloccare i cambiamenti a loro sfavorevoli. E se questi stessi cartelli venissero usati per promuovere un cambiamento favorevole al mondo?
Supponiamo che a Copehagen l’industria automobilistica decidesse che nessun produttore immettera’ piu’ in nessun mercato del mondo un veicolo che inquini oltre un certo livello. Tale decisione andrebbe a vantaggio di alcuni – quelli che non producono tali veicoli – e a svantaggio di altri – quelli che li producono -: potrebbe trovarsi un modo per cui chi ci guadagna compensa chi perde? Le aziende e i loro indotti destinate a fallire potrebbero essere rilevate da quelle destinate a prosperare: la dirigenza compensata con participazioni azionarie; gli operai e i lavoratori riassunti e riqualificati.
Fermi tutti: tale operazione non e’ forse cio’ che gia’ normalmente avviene nel mercato globale?
Recentemente, la Fiat in grado di produrre veicoli poco inquinanti ha rilevato parte dalla Chrysler, che immetteva sul mercato veicoli ad alti consumi che gli americani non compravano piu’ a sufficienza.
Piu’ che cambiare il mondo, si tratterebbe quindi di accelerare i processi per cui i “cattivi” attori sul mercato sopravvivono piu’ del dovuto. Il cambiamento necessario potrebbe essere implementato poco a poco: l’industria energetica potrebbe darsi l’obiettivo di smantellare e riconvertire le centrali a carbone entro un certo numero di anni, altrimenti l’economia cinese si troverebbe ferma dall’oggi al domani. La dirigenza politica cinese non accetterebbe di rinuciare al controllo diretto della sua industria? Adesso come adesso forse no, ma i trend della finanza globale – con l’avanzare di strumenti quali i “fondi sovrani” investiti direttamente dai governi nelle multinazionali – sembrano suggerire il contrario: se tutti ci guadagnano, perche’ no?
L’attuale strada di Copehagen – governi nazionali che tentano di contenere l’industria globale – ha dimostrato tutti i suoi limiti. Potrebbe valere la pena testare la strada contraria, con l’industria globale chiamata ad espandere le sue migliori pratiche verso tutti i mercati nazionali? Perche’ le principali catene di supermercati non potrebbero essere stesse porsi l’obiettivo per far sparire dagli scaffali di tutto il mondo le lampadine ad alto consumo energetico? I governi, nel frattempo, potrebbero pensare a far crescere la sensibilita’ della societa’ civile sul problema…
L’industrializzazione globale e’ all’origine dei cambiamenti climatici. Se non possiamo combatterla, forse potremmo spingerla a tirare fuori il meglio di se’, accelerando il successo della globalizzazione piu’ sostenibile e il fallimento di quella piu’ nociva. Invece di colpevolizzare i capitani d’industria, potremmo provare a trasferire loro piu’ responsabilita’, lasciando un’opportunita’ di riscatto. Potremmo elevare anche loro a “governo del mondo”, esplicitamente e sotto i riflettori, privando i politici di parte delle prime pagine dei giornali e del ruolo di capro espiatorio di problemi che non possono controllare.
Copenhagen ha dimostrato che le sfide globali sono troppo grandi per i governi nazionali: credo che la ricerca di ulteriori strade, senza pregiudizio, sia ora un imperativo di tutti.