Sulla finanziarizzazione dell’economia, e degli stati
Frequentando il mondo delle aziende mi rendo conto di quanto alcune di esse, in qualche modo, esistano su due diversi livelli: da una parte l’impresa fatta dai collaboratori e dal loro lavoro, dall’altra quella fatta dai valori azionari e di performance sul mercato. Spesso, specie nel contesto dei grandi gruppi industriali, queste realtà sono scisse tra loro: a fianco di una maggioranza di persone per le quali l’azienda equivale al lavoro che essi esprimono attraverso di essa, oltre che ai prodotti o servizi che ne risultano, convive un gruppo minoritario per cui l’impresa equivale anche e soprattutto ai soldi che genera.
Quando si parla di finanziarizzazione dell’economia ci si riferisce all’accresciuta predominanza della missione finanziaria delle aziende su quella produttiva. Agli occhi di un osservatore esperto (devo però in questo caso ammettere che io non sono specialista in macro-economia), si tratta di un esperimento di ingegneria economico-sociale promosso più o meno consapevolmente dagli stati nazionali e dalle banche centrali. Sulla base dell’imperativo di una crescita del PIL di cui tutti beneficeranno vengono attuate politiche monetarie espansive – in primis, bassi tassi di interesse – che consentono a banche ed enti investitori di qualsiasi tipo di accedere in maniera molto conveniente a grandi capitali. Si tratta di un eccesso di denaro, perché in questo caso i soldi non sono generati ne’ associati ad alcuna attività produttiva corrente, ma piuttosto “piovono dal cielo”: tale sovrabbondanza verrà riversata dagli investitori nel mondo delle aziende, andando in qualche modo ad inquinarne il comportamento.
Se sempre più imprese vengono principalmente concepite come veicoli di investimento piuttosto che strumenti produttivi, non c’è da stupirsi se la massimizzazione del profitto si afferma come filosofia gestionale predominante. L’eccesso di denaro presente nel sistema genera pressione affinchè sempre più aziende si quotino in borsa: diventando pubbliche – ovvero di tutti i propri investitori, grandi e piccoli – saranno chiamate a dare la precedenza alla missione finanziaria su quella produttiva. L’intero sistema spinge le aziende a cambiare pelle, e nelle stanze dei bottoni cominciano a prevalere linguaggi e meccanismi decisionali alieni alla realtà produttivo-commerciale, e umana, delle aziende stesse. Quello che conta è fare più soldi possibile (ne beneficiano tutti: dallo stato ai grandi investitori ai piccoli risparmiatori!), cercando in tutti i modi di aumentare le rendite e diminuire il lavoro, il più velocemente possibile. In un mondo in cui si ambisce a generare un decoupling (dissociamento) tra crescita economica e pressione ambientale, non ci si rende spesso conto che il decoupling che è invece sempre più in atto è quello tra espressione di lavoro e generazione di denaro. Mi chiedo: fino a quando pagherà di più il non lavorare piuttosto che il farlo, come potremo aspettarci che l’economia reale possa esprimere il suo migliore potenziale?
Il fenomeno descritto, inoltre, comporta che la società globale diventi sempre più iniqua nella distribuzione dei redditi tra cittadini. I paesi anglosassoni, in particolare, sono di questi tempi ossessionati dalla questione dell’inequality, sulla quale si è recentemente speso con successo l’economista francese Thomas Piketty. Si potrebbe ipotizzare che il più o meno consapevole esperimento di ingegneria economica che ha favorito il mondo dell’investimento rispetto a quello del lavoro demarchi due successive fasi di sviluppo dei sistemi capitalisti:
- Prima fase, in cui gli stati nazionali si concentrano su:
[Incentivare la produzione] → [Tassare la produzione] → [Redistribuire i proventi della produzione nella società]
- Seconda fase, in cui gli stati nazionali si concentrano su:
[Incentivare l’investimento] → [Beneficiare essi stessi dell’investimento] → [Redistribuire i proventi della produzione (e solo in parte dell’investimento) nella società]
Noto che, se nel primo caso gli stati riuscivamo a mantenere una posizione distaccata dai mercati, nel secondo gli stati partecipano nei mercati stessi, ovvero, che ci piaccia o meno, ne diventano parte. Scendono al livello dei mercati innescano un conflitto di interesse: da una parte sono tenuti a spingere verso la redistribuzione, a beneficio dei lavoratori, dall’altra verso la finanza, a beneficio degli investitori. Se tutti i lavoratori potessero anche diventare investitori con la stessa facilità e successo, non si genererebbe un problema di equità sociale; considerato però che gli investimenti tendono a diventare esponenzialmente più attuabili e redditizi ad aumentare delle risorse a disposizione, allora l’iniquità sociale non può che crescere, e continuare a crescere, e continuare a crescere sempre di più. E’ la meccanica stessa del sistema a decretare il progressivo distacco delle elite (che vivono più di investimento che di lavoro) da tutti gli altri nella società (che vivono più di lavoro che di investimento).
In conclusione, credo che questo articolo sia stato utile per chiarire le ragioni ultime per cui, a livello sistemico, si sia andata progressivamente affermando la filosofia aziendale della massimizzazione del profitto, un’ideologia su cui in questi anni ho riflettuto e scritto molto a partire dalla mia conoscenza diretta del mondo delle imprese. In fin dei conti, a livello macro-sociale un mindset e corso d’azione non si perpetua se non quando risulta di beneficio verso tutti gli attori sociali potenti.
Se il sistemi operativo di una società è iscritto dentro le sue istituzioni, è necessario che chi ha a cuore una sua evoluzione ne guadagni maggiore consapevolezza.
Buongiorno Filippo,
Grazie per l’articolo, che condivido pienamente. La finanziarizzazione dell’economia è uno dei problemi più gravi e meno affrontati degli ultimi anni. Anzi, come scrivi le politiche monetarie intraprese per uscire dalla crisi (manovre espansive dal Quantitative Easing in poi) non hanno fatto che inondare ulteriormente di soldi la finanza, mentre poco o nulla è arrivato all’economia reale. Il risultato è uno scollamento dei valori dei mercati finanziari dai fondamentali dell’economia, ovvero la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria. E’ per lo meno paradossale che tutto questo sia la conseguenza delle azioni intraprese per tirarci fuori da una crisi (quella dei subprime) causata esattamente da questo stesso modello finanziario.
Tra l’altro, una delle conseguenze dell’eccesso di liquidità sui mercati finanziari è il fatto che gli investitori non sanno più dove mettere i loro soldi. Cosi anche quelli che dovrebbero essere più prudenti, come i fondi pensione, investono in titoli sempre più rischiosi alla ricerca di un qualche rendimento, alimentando bolle e speculazioni.
Tutto questo mentre milioni di persone sono escluse dall’accesso al credito e dai servizi finanziari di base. Eccesso di soldi da una parte (dove non servono e non producono, ma fanno danni e creano instabilità) mentre nello stesso momento i soldi non arrivano dove servirebbero davvero (economia reale, investimenti e creazione di posti di lavoro). Domanda e offerta di denaro non si incontrano. Se – come insegnano i manuali di economia – la finanza dovrebbe garantire “l’allocazione ottimale delle risorse”, siamo di fronte al più macroscopico e inaccettabile fallimento dei tempi moderni.
Andrea