La rivoluzione della sostenibilità (18): repurposing, dotare le imprese di nuovi scopi
Sono i primi di Novembre e mi trovo a Castel Gandolfo, sto prendendo parte al forum sulla Prophetic Economy organizzato dal movimento globale per l’Economia di Comunione. E’ metà marzo e mi trovo a Londra, in qualità di partecipante al Sustainability Summit 2019 promosso dalla rivista The Economist. Si tratta di due organizzazioni e due eventi ideologicamente molto distanti tra loro, ma uniti dal focus comune sull’economia che verrà: in entrambi i casi si discute di repurposing delle imprese, riferendosi alla potenziale riconversione dei loro scopi per affrontare le sfide ambientali e umane del presente e del futuro.
Nei miei precedenti articoli sulla “Rivoluzione della sostenibilità” ho presentato molte argomentazioni a detrazione della filosofia della massimizzazione e concentrazione del profitto, che per come applicata oggi produce impressionanti danni collaterali all’uomo e al pianeta. Dopo aver ascoltato la presentazione di Felix Finkbeiner – giovanissimo fondatore del movimento Plant the Planet per la riforestazione del pianeta – mi devo in parte ricredere: mi rendo infatti conto che questa stessa filosofia può essere utilizzata per accelerare la crescita di ciò di cui il pianeta e l’umanità ha più disperatamente bisogno.
Si tratta in altre parole di distillare tutto il meglio che il sistema capitalista è stato in grado di generare – efficienza, generazione e sperimentazione di nuove idee, focus sul merito delle cose, puntualità degli interventi, misurazione e scientificità, tecnologie di coordinamento globale, capacità di motivare/ mobilitare/organizzare le persone verso scopi definiti di maniera semplice e univoca, utilizzo del surplus di capitali per crescere – e metterlo direttamente a servizio delle enormi sfide ambientali e umane che l’umanità si trova oggi ad affrontare.
Il profitto – se ha senso utilizzare ancora questo termine – si trasforma da fine a mezzo; la massimizzazione su scala planetaria viene attuata non di maniera forzosa e standardizzata, ma parallelamente a un’ottimizzazione locale dei propri interventi; le risorse e il potere che da esse derivano vengono condivise tra molti, piuttosto che concentrate nelle mani di pochi. Credo che il mondo abbia bisogno di una nuova generazione di imprenditori che, come Felix, non rinnega lo strumento della crescita (in quanto tale ogni strumento è “sacro”?) ma lo mette al servizio di nuovi fini, in primis nella cura diretta delle malattie del pianeta e dello spirito umano.
Mi chiedo: è realistico e possibile pensare che una tale riconversione di scopi possa interessare anche le gigantesche imprese che dominano l’economia globale di oggi? Se è vero che le Amazon, gli ExxonMobil, e i JP Morgan del mondo sono attualmente parte del problema del mondo, è anche vero che esse stesse possono diventare parte della soluzione. Vi immaginate inoltre che propulsione mediatica potrebbe arrivare se i Google, Facebook e Disney del mondo reindirizzassero parte della loro stessa ragione di esistere verso la promozione della sostenibilità del pianeta?
Si potrebbe argomentare che nutrire una tale speranza non solo è illusorio – i giganti continueranno a rincorrere commercio e profitto – ma anche fuorviante: la maggior parte delle discussioni sulle aziende superstars del mondo globalizzato va in direzione opposta, ovvero sul come ridurne le sproporzionate dimensioni e smantellare la loro posizione monopolistica. A mio avviso però, occorre essere abbastanza pragmatici da lasciare aperte tutte le possibilità ed eventualità: se esistono ulteriori strade attraverso cui queste imprese possono diventare di maggior servizio al mondo, perché non considerarle? Perché non ragionare a livello pratico, ovvero de-ideologizzato?
Sul tema della riconversione industriale, esistono precedenti storici da cui potremmo trarre importanti insegnamenti: durante le guerre mondiali parte delle imprese manufatturiere, tra cui Fiat, riconverte la propria produzione tecnologica in armamenti e apparati bellici, per poi riconvertirla nuovamente a conflitto terminato. Si comincia ad operare a servizio della causa comune (in quel caso, non così nobile..) grazie al contributo di un ente finanziatore, in quel caso lo stato nazionale. Bisognerebbe quindi trovare nuovi modi per canalizzare finanziamenti verso le cause comuni di oggi, e questo a ben vedere al momento già avviene, anche se limitatamente alle fondazioni filantropiche, aziendali e ONG. Le grandi aziende di oggi invece non abbracciano questi scopi perché non sufficientemente commerciali, ovvero privi un modello di business che consenta loro non solo di essere retribuiti, ma anche di “fare i soldi” e crescere. Due sono le alternative a questo punto:
- o le grandi aziende si vedono obbligate, da entità statali o sovranazionali, a reindirizzare i loro scopi e la loro produzione verso le grandi sfide ambientali e sociali di oggi, indipendentemente dal grado di profittabilità nel farlo;
- oppure le grandi aziende trovano un modo di fare i soldi e crescere risolvendo queste sfide.
Fare i soldi equivale ad attivare un circolo virtuoso per cui più si vende e più si venderà, più si ha successo e più se ne avrà. La domanda diventa: in che modo potremmo creare le condizioni per cui quelle imprese che vendono un servizio di cura diretta e immediata del mondo possano vedere crescere esponenzialmente le proprie entrate? Cosa potrebbe spingere Exxon Mobil a dedicarsi alla rimozione della plastica nei mari o JP Morgan al supporto formativo/finanziario verso le crescenti fasce di persone inoccupate sul mercato? Se rimozione della plastica e il microcredito non sono ancora dei business così come i giganti commerciali del mondo li vorrebbero, forse è urgente trovare nuovi modi per farli diventare tali? (Un esempio, forse banale: un’area naturalistica ripulita potrebbe essere trasformata in parco ricreativo soggetto a un pagamento di un biglietto la cui entità aumenta proporzionalmente al grado di bonifica ottenuto.
L’ambiente e la società sono ad oggi concepite principalmente come limite piuttosto che come un’opportunità per il business: il danneggiamento delle risorse ambientali e umane comporta un costo che impatta immediatamente l’azienda stessa e la sua reputazione. A Londra si è parlato tanto della necessità di portare avanti i due aspetti complementari di uno stesso processo – minimizzazione dello spreco di risorse da una parte, massimizzazione del loro utilizzo dall’altra – e c’è da augurarsi che siano proprio le aziende che fanno questo quelle che si espandono sui mercati. Gli stati e le altre entità finanziarie collettive potrebbero a quel punto certificare e supportare questo tipo di transizione, attraverso sussidi diretti e incentivi.
In conclusione, mi sento di affermare che è forse arrivato il momento di lasciare da parte ideologie e precetti secondo cui le cose dovrebbero andare in un verso piuttosto che in un altro: occorre riacquisire uno sguardo limpido che ci mostri tutte le strade percorribili per arginare un’emergenza ambientale e sociale inedita e straordinaria. Se è vero che la logica della crescita, del profitto e della tecnologia ad ogni costo ha creato danni e pressioni di ogni tipo sul mondo, è altrettanto vero che la stessa logica manifesta la straordinarietà dei risultati che l’umanità può al giorno d’oggi conseguire quando si coordina verso obiettivi comuni. Si tratta di uno strumento in qualche modo “divino” che l’umanità ha scoperto e sperimentato con incredibile successo: è forse ora arrivato al momento di declinarlo verso nuove e giuste finalità.