La rivoluzione della sostenibilità (14): oltre l’intelligenza, la semplicità
Uno degli aggettivi inglesi più usati ed abusati di questi tempi è smart (intelligente, sveglio). Seppure spesso questo attributo venga invocato di maniera riduzionista, meccanicista, o alla moda, concordo con gli esperti di economia nell’assegnare molta importanza al fatto che imprese e organizzazioni gestiscano di maniera più intelligente le risorse che hanno a disposizione.
Intelligenza fa rima con efficienza: in qualche modo l’una è la continuazione naturale dell’altra. Si tratta in prima battuta di combattere gli sprechi, rendendo da una parte le aziende più competitive, dall’altra l’intero sistema più sostenibile. I più recenti sviluppi dell’informatica e della sensoristica spalancano le porte alla cosiddetta industria 4.0, ovvero un’industria in cui si raccolgono dati su tutti i processi, per comprenderli meglio e quindi migliorarli. Di questi tempi una moltitudine di società tecnologiche e di consulenza si prodiga per proporre ai propri clienti soluzioni per diventare più smart, creando però più confusione di quanto sarebbe a mio avviso necessario.
Maggiore intelligenza è altresì richiesta a chi si occupa di marketing, per evitare di fare ciò che non è necessario e crea soltanto dissipazione di energie. Le società di volantinaggio porta a porta ne forniscono un esempio chiaro: distribuiscono una comunicazione standardizzata (ad esempio un volantino promozionale di un nuovo esercizio commerciale) a tutte le abitazioni del circondario, senza riuscire a discriminare chi è interessato da chi non lo è, oltre a chi è presente in casa in quel periodo da chi non lo è. A livello sistemico, una tale azione rappresenta una perdita netta per tutti: per l’azienda, che si troverà a stampare e distribuire molti più volantini del necessario; per i non interessati o i non presenti, per i quali la comunicazione rappresenta solo rumore; per l’ambiente, per lo spreco di risorse.
Grazie alla loro capacità di tenere traccia di tutto e di tutti, i sistemi digitali sono il campo d’azione privilegiato delle imprese smart. Attraverso l’analisi di grandi quantità di dati (big data) le aziende riescono a monitorare e misurare l’impatto delle proprie azioni, oltre che profilare più chiaramente la propria clientela. Le soluzioni analitiche più avanzate le inducono a spendersi sulla frontiera del miglioramento quantitativo, anche se i benefici potrebbero a un certo punto diventare fortemente decrescenti. In altre parole, se la raccolta dei dati principali e la statistica descrittiva a loro applicata potrebbe agevolare un salto di qualità, le successive iterazioni più sofisticate richiederanno molti più sforzi e risorse a fronte di risultati meno significativi. Ciò che doveva combattere gli sprechi e abbassare il rumore, comincia ora a generare nuovamente entrambi.
E’ necessario inoltre considerare i costi ambientali del processamento e salvataggio di grandi quantità di informazioni e di dati. Siamo spesso indotti a pensare che il mondo dei big data – e la società dell’informazione in cui viviamo, inclusiva di Internet e social media – abbia un basso impatto ambientale. In qualche modo l’assenza di consumo diretto di carta, oltre che riutilizzazione degli stessi schermi per una molteplicità di operazioni, ci impedisce di renderci pienamente conto di quanto del fatto che i dati da noi generati necessitano di ingenti quantità di spazio fisico per essere archiviati. Di fatto, le server farm del mondo si moltiplicano alla velocità della luce, consumando territorio e generando abbondanti emissioni. Infine, ovviamente, tutte le apparecchiature elettroniche – siano esse le nostre o quelle dei fornitori dei servizi – necessitano di essere alimentate attraverso la rete elettrica.
Mettendo al centro la priorità della sostenibilità, si potrebbe postulare che le aziende non solo dovrebbero mirare a diventare più smart, ma anche, in generale, più semplici. La fotografia che restituiscono i dati è infatti di tipo analitico-riduzionista: prescinde infatti da quello sguardo più intuitivo e olistico capace di distinguere quello che è essenziale per l’azienda da quello che non lo è. Anche se ora lo fanno meglio, le aziende in realtà potrebbero continuare a fare troppo.
Un passo imprescindibile per semplificare un’impresa è a mio avviso quello di emanciparsi dalla ricerca compulsiva della propria crescita, diventando più selettivi: un’azienda che cerca di fare “tutto”, “per tutti” e “a tutte le condizioni”, guidata da una volontà gigantistica e di sopraffazione della concorrenza, è un’azienda che rischia di perdere il senso della priorità, della misura e in ultima istanza della direzione. La sua crescita da sana potrebbe diventare “tumorale”, ovvero a danno di altri pezzi importanti del sistema (potremmo considerare Amazon un caso di questo tipo?).
Sembra quindi che le aziende possano in qualche modo rimanere intelligenti solo a metà: se non diventano consapevoli di sé stesse, non approdano al passo evolutivo della semplificazione. Puntare esclusivamente a far crescere quello che si sa già fare, equivale inoltre all’assumersi un grande rischio, perché nel frattempo il mondo intorno a sé cambia. Un’impresa che invece riconosce e punta all’essenziale non solo non spreca risorse, ma le libera per continuare a esplorare e testare il proprio potenziale. In risposta al mondo che cambia, tale impresa sarà maggiormente in grado di fare evolvere la propria proposizione di valore.
In conclusione, mi sento di poter affermare che ogni qual volta gli esseri umani e le loro organizzazioni creano complicazione, il mondo ne soffre. Ogni qual volta creiamo eccesso, ridondanza e sprechi ci disallineiamo dalla via naturale di fare le cose, fondata sulla semplicità e sull’essenzialità. Ancora una volta il mio pensiero va agli studi ecologici, in particolare alle parole della fondatrice della biomimesi Janine Benyus: “La natura è il nostro modello. La natura è il nostro metro di misura. La natura è il nostro mentore”.