La rivoluzione della sostenibilità (13): risolvere il nodo del lavoro
Il concetto di lavoro rappresenta un’ossessione sempre più influente nella società contemporanea. Tutti noi dobbiamo averne perlomeno uno, per garantirci un’entrata economica e quindi la possibilità di mantenerci e finanche (nella percezione di qualcuno) di sopravvivere. I governi sono anzitutto chiamati a creare le condizioni affinchè esistano opportunità di lavoro per tutti. Le imprese cercano di contenere i costi associati al lavoro, per rimanere quanto più possibile profittevoli e competitive.
A ben vedere, una società in cui tutti portano un tale peso sulle spalle, non è una società completamente libera. Buona parte dell’agire sociale prende vita da questa preoccupazione, e se da una parte essa rappresenta un formidabile motore per mettere in moto l’ingegno e l’impegno delle persone, dall’altra porta a compiere scelte subottimali perché dettate dalla paura: “se non…, allora…”. Si vive in un certo senso sotto ricatto, e il valore stesso delle persone da intrinseco diventa estrinseco, ovvero condizionato dal successo sul lavoro.
Per un istante cerco di immaginare cosa potrebbero fare – o evitare di fare – i governi se non dovessero per forza dare priorità al lavoro. Essi dipendono dalla creazione di impiego e di denaro in due modi: da una parte per mantenere la pace sociale; dall’altra per garantire a sé stessi entrate economiche sotto forma di gettito fiscale. Si può quindi affermare che i governi non sono in liberi di amministrare la cosa pubblica in quanto tale, ma sono piuttosto costretti ad amministrare la cosa pubblica di maniera funzionale alla creazione di lavoro e di ricchezza, anche se far questo peggiora lo stato della cosa pubblica.
Se i governi fossero realmente emancipati da vincoli e collusioni – con il mondo delle imprese da una parte e quello dei cittadini dall’altra – è ragionevole pensare che affronterebbero con maggiore determinazioni altre priorità. Per esempio, tutelerebbero con più forza la collettività dall’inquinamento e dalla distruzione ambientale, imponendo normative più stringenti al mondo della produzione. Plausibilmente, la proteggerebbero dalla proliferazione di pubblicità onnipervasiva (inquinamento mentale), imponendo limiti ai tempi e i modi attraverso cui è ammissibile catturare l’attenzione dei cittadini. Quello che invece si osserva nella nostra società è che i governi non fanno il loro mestiere, o lo fanno di maniera debole, perché dipendono troppo da tasse e tangenti/favori, oltre che dalla quantità di opportunità di lavoro create dalle imprese per i cittadini.
Oltre ai governi, anche i cittadini finiscono per diventare vittime della tirannia del lavoro e del denaro: mossi dalla paura di non averne o dalla bramosia di averne ancora di più, in molti finiscono per “dare il peggio” di sé stessi, diventando disposti a rubare, ingannare o umiliarsi pur di garantirsi la sopravvivenza o l’arricchimento, reali o percepiti che siano. In generale, la componente di paura o desiderio compulsivo non aiuta nessuno di noi a compiere scelte veramente intelligenti ed evolutive: lasciare un lavoro che non ci gratifica o ci immiserisce, coltivare un interesse o un sogno nel cassetto, dare priorità alla propria salute, vivere più serenamente insieme agli altri.
A ben vedere, buona parte dei mali sociali che affliggono le società capitalista contemporanea può essere riconducibile alla matrice dei soldi, ovvero al meccanismo ultimo di sopravvivenza e successo dentro di essa. Tale meccanismo ha chiaramente funzionato da incentivo per l’incredibile e per molti versi prezioso sviluppo moderno dell’umanità, ma siamo ora arrivati a un punto di saturazione che lo stesso incentivo si è tramutato da funzionale a disfunzionale. Il continuare allo stesso modo smette di essere evolutivo e comincia a diventare involutivo, trasformando quelli che erano prima benefici in danni.
La questione del lavoro, inoltre, diventa ancora più esacerbata e ineludibile nell’epoca in cui sempre più attività industriali che un tempo erano prerogativa degli esseri umani vengono delegate alle macchine. L’attuale processo di automazione e robotizzazione potrebbe per lo meno in parte essere accolto con grande positività, se solo non fossimo preoccupati di rimanere senza lavoro o con poco lavoro da fare (e quindi senza soldi). Risulta a questo punto urgente entrare nell’ordine delle idee che ci sarà meno lavoro da fare nel futuro per noi esseri umani. Dovremmo essere messi nella condizioni di non preoccuparcene, riguadagnando al contrario la capacità di vivere con più tempo libero e meno sensi di colpa la nostra vita.
La società moderna, mi sembra, si trova di a un bivio: per imboccare nuovamente la strada evolutiva, è chiamata a risolvere il nodo del lavoro. Da questo punto di vista, i sistemi sociali del futuro dovranno diventare “post-capitalisti” e “post-comunisti”, ovvero emancipati dalle sovrastrutture di potere che interferiscono con l’altrimenti più naturale e partecipativo flusso di denaro e di lavoro. L’equazione lavoro-denaro-sopravvivenza/successo dovrà essere rivisitata alla fondamenta, ampliando i concetti di lavoro e di retribuzione di modo tale che persone e imprese possano operare con più serenità e più intelligenza, ovvero più consapevoli di quello che possono e vogliono veramente dare e ricevere. Il castello della nuova economia dovrà reggersi sulla fiducia piuttosto che sulla preoccupazione, facendo leva sulla motivazione intrinseca che ogni persona ha di migliorare sé stessa e il mondo.