Filippo Dal Fiore

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La rivoluzione della sostenibilità (8): un’economia senza cuore diventa un’economia ingiusta

May 30, 2018
ingiustizia

Oltre cinque anni sono passati da quando ho dato avvio alla mia collaborazione con Great Place To Work, una società di ricerca e consulenza che supporta le imprese a raccogliere le opinioni dei propri collaboratori per migliorare il clima e i rapporti interni. Questo lavoro, per molti versi inaspettato considerata la mia traiettoria professionale precedente, mi ha consentito di assumere un punto di vista privilegiato su molte dinamiche organizzative complicate e delicate. L’attività di ricerca per il corso in Economia Sostenibile mi ha quindi permesso di inserire le osservazioni dirette nel quadro più ampio di cambiamento in cui le aziende sono coinvolte.

In questo articolo rifletto sull’importanza di chiedersi chi prenda le decisioni e in che modo lo faccia. Se da un lato è sempre più diffusa la consapevolezza che occorra rendere le aziende più “partecipate” da tutti, dall’altra è più difficile rendersi conto di tutti i modi in cui una singola persona o poche persone riescano in qualche modo ad assumere e mantenere il potere, a volte di maniera sottile ma coercitiva. Quando ce ne rendiamo conto è spesso troppo tardi per cambiare, e ai collaboratori non resta che adeguarsi alle modalità emanate dal vertice o lasciare.

La domanda successiva riguarda il come e perchè alcune persone e non altre facciano carriera all’interno delle organizzazioni tradizionali. In Italia si parla tanto di meritocrazia anche perché i criteri di selezione sono spesso poco chiari: in alcuni casi non si è in grado di descrivere formalmente le competenze necessarie a ricoprire determinati ruoli; in altri casi, rimanendo generici ci si trattiene più discrezionalità al momento della scelta, finendo per favorire coloro che risultano più allineati con il parere dei capi.

Non è un caso, da questo punto di vista, se nelle aziende più evolute questa terminologia sia superata, e non si parli più di “capi” e “dipendenti”. All’opposto, si percepisce il valore di tante teste pensanti, così che le decisioni vengono prese di maniera il più possibile decentrata, di volta in volta dalle persone che conoscono più da vicino le singole situazioni. In alcune aziende, i coordinatori dei reparti vengono scelti dal basso attraverso una votazione a cui partecipano tutti i collaboratori dei reparti stessi; allo stesso tempo il vertice stesso non è più composto da una sola persona, ma da più persone a rappresentanza dei molteplici pezzi d’azienda.

Mantenere le aziende il più possibile partecipate è a mio avviso fondamentale per stemperare perlomeno tre grandi rischi che vedo associati all’accentramento di potere:

- il fatto che i vertici “si montino la testa”, maturando assuefazione per la propria posizione di potere e su ciò che essa può concedere (in primis, prestigio e denaro);

- la probabilità che le decisioni non partecipate diventino prima in poi decisioni ingiuste, perché i responsabili potrebbero innamorarsi della versione della storia a loro più gradita, nell’ignoranza di altri punti di vista;

- l’evenienza che i responsabili stessi sviluppino una forte paura di perdere la propria posizione vantaggiosa o temano una ritorsione degli altri, con la conseguenza di diventare ancora più arroccati e dogmatici sulle proprie posizioni.

Consentire il distacco di alcune persone da tutte le altre, e dalla variegata realtà dei fatti del mondo, può quindi contribuire a disumanizzare queste stesse persone. Specie negli ambienti in cui circolano tanti soldi, la voce del buon senso e della generosità potrebbe essere sepolta da teorie, calcoli e razionalizzazioni volte a soddisfare un desiderio implicito inestinguibile: fare più soldi e ottenere più prestigio possibile, per sé stessi. Credo che la mancanza d’amore che esperiamo in questo mondo renda tutti noi esseri umani vulnerabili a sviluppare forme di dipendenza e assuefazione di questo tipo, che poi coincidono con una forma di abuso operata a danno di noi stessi oltre che degli altri.

I sistemi politico-economici del futuro dovranno essere ridisegnati nella consapevolezza di questi rischi, per prevenire che le persone cadano in una trappola da cui non sono poi più in grado di uscire. Tutti noi dovremo essere messi in condizione di perseguire e manifestare il vero Dio, piuttosto che idoli che non fanno il bene di tutti. Quando smetteremo di farci ossessionare dai numeri e dal dio denaro, cominceremo a guardare ai soldi e all’ammirazione altrui per quello che sono: il risultato di un buon lavoro, e un credito di potenziale a nostro favore nel futuro, piuttosto che il fine ultimo del lavoro stesso.

Appendice: come rendere le aziende più giuste?

L’economia può diventare e sta diventando più giusta grazie alla maturata consapevolezza di molte persone, spesso giovani, che non intendono riproporre gli errori del passato. Anche la politica può diventare più giusta, trasformandosi da “gioco sporco”, sullo stile di House of Cards, a gioco pulito in grado di sedurre e attrarre una nuova generazione di persone più attente dall’etica.

Un dibattito sempre più attuale all’interno delle aziende riguarda l’equità retributiva. La cosiddetta “guerra dei talenti” messa in opera tra imprese globali concorrenti per attrarre i manager reputati più qualificati, ha contributo a far lievitare alle stelle la forbice dei compensi: in molte aziende anglosassoni l’Amministratore Delegato incamera una cifra oltre 1000 volte più grande rispetto al dipendente medio. Di contro, nel secolo scorso Adriano Olivetti proponeva al mondo la sua “regola aurea”: nessun manager avrebbe dovuto guadagnare più di 10 volte il salario minimo di un operaio.

Questi eccessi sono sintomatici della concentrazione di potere decisionale e creativo nelle mani di pochissime persone all’interno dell’azienda: si presuppone che siano loro i reali creatori di valore, con il resto della popolazione aziendale confinata a ruoli di mera esecuzione e a rischio automazione. In assenza di una normativa o di una regola morale di riferimento, il consiglio di amministrazione è libero di fare quello che vuole, spesso nell’ignoranza di quanto valore aggiunto venga creato direttamente dai ruoli più operativi. Se è giusto premiare il merito positivo, quanto premiarlo potrebbe rimanere una questione tanto soggettiva quanto soggetta a comparazioni di mercato più o meno compiute.

Alcune aziende di nuova generazione eludono la questione dell’inequità distributiva attraverso una distribuzione più capillare del potere decisionale e creativo in azienda. I collaboratori da “impiegati” diventano “associati”, maggiormente compartecipi sia del rischio imprenditoriale (al pari dei fondatori, investono denaro e/o tempo non retribuito nell’impresa), sia del suo valore sul mercato (al pari dei fondatori, ricevono una partecipazione azionaria). Così facendo si prevengono sul nascere due generi di problematiche:

- l’esclusione della base aziendale dai processi decisionali, minimizzando quindi il rischio che poche persone dentro l’azienda decretino l’aumento dei propri stipendi a fronte della stabilità o descrescita di quelli degli altri (in questo caso si accetta l’eventualità che coloro che vogliono di più o godono di un valore più alto sul mercato possano un giorno andarsene)

- la potenziale demotivazione o mancanza di proattività della base aziendale, perché nel bene e nel male tutti si assumono la responsabilità dell’azienda sulle proprie spalle, compartendone più equamente onori e onori (si presuppone, inoltre, che le decisioni prese direttamente da chi vive l’operatività sul campo possano essere migliori delle decisioni prese, per loro conto, da altre persone gerarchicamente superiori)

Sembra quindi che le aziende possano diventare più giuste se si riequilibrano i rapporti di potere tra le persone al loro interno. La mia impressione è che gli imprenditori di nuova generazione siano sempre più inclini a dotarsi di strutture organizzative orizzontali e piatte, piuttosto che verticali e gerarchiche. Nelle aziende olocratiche e Teal ognuno è responsabile solo di sè stesso e si sceglie dinamicamente le attività a cui intende contribuire, e a volte anche la retribuzione.

Presa consapevolezza delle opportunità offerte dalle configurazioni organizzative evolute, occorre però chiedersi quali siano le precondizioni affinchè esse possano avere successo. Sono molte, infatti, le doti richieste a coloro che ne fanno parte, in primis: responsabilizzazione, proattività, coraggio, fiducia negli altri, competenza, orientamento alla crescita personale da una parte e alla condivisione con gli altri dall’altra. Se questi requisiti di merito fossero disattesi si produrrebbero squilibri e risultati complessivi insoddisfacenti, e di qui la necessità di creare sovrastrutture e gerarchie correttive quando non si fosse in grado di risolvere il problema.

In conclusione, se è plausibile pensare che le aziende cambieranno solo quando cambieranno le persone, è altrettanto probabile che il trovarsi ad operare in contesti più sani aiutarà le persone stesse a maturare le attitudini necessarie per il loro fiorire.

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