La rivoluzione della sostenibilità (4): competizione contro collaborazione
Ripenso a un recente convegno sul presente e il futuro delle aziende e dell’economia.
In quel contesto ho affermato che un sistema competitivo in cui la vittoria dell’uno corrisponde alla sconfitta dell’altro (win-lose) è innaturale. In natura, infatti, ogni elemento riconosce la sua interdipendenza con gli altri, ed esprimendo sé stesso contribuisce al sussistere degli altri (win-win). A differenza delle aziende sui mercati le cellule del corpo non puntano alla mutua sopraffazione, ma insieme lavorano per il benessere del corpo nella sua complessità.
Come potevo immaginare, una tale osservazione ha suscitato reazioni ben distinte.
Da una parte approvazione da parte dei sostenitori delle emergenti forme di economia cosiddetta “collaborativa”, a partire dalla sharing economy in cui le persone mettono a disposizione degli altri, a pagamento, alcuni possedimenti sotto-utilizzati quali automobili, abitazioni o competenze. Dall’altra resistenza da parte di coloro per cui la competizione è soprattutto un valore, in quanto meccanismo “darwiniano” che ci aiuta ad evolvere attraverso il confronto/scontro con gli altri.
Quel che ne risulta è uno scontro di visioni apparentemente irrisolvibile, ma al proposito mi chiedo: siamo sicuri che il problema non sia mal posto? Ho l’impressione che la terminologia stessa che stiamo utilizzando – “competizione” da una parte contro “collaborazione” dall’altra, con tutto il portato di i connotati di cui abbiamo riempito queste due parole – ci impedisca di individuare con chiarezza la cosa giusta da fare.
Per far luce della questione è forse utile osservare la realtà dei fatti, in un momento storico in cui la velocità e l’ampiezza globale dei mercati hanno da una parte esasperato le dinamiche competitive tra aziende concorrenti, dall’altra richiesto forme avanzate di collaborazione tra aziende appartenenti alle stesse filiere produttive. Cominciamo dall’aspetto esasperante, ovvero dal fatto che ci si senta sempre più minacciati da concorrenti diretti o potenziali: potrei fallire; potrei smettere di crescere; potrei essere inglobato da altri. La teoria economica vuole che queste paure fungano da stimolo per migliorarsi, ovvero per innovare, per diventare più efficienti, per prestare più attenzione ai clienti. Si assume che la concorrenza favorisca l’evoluzione dei mercati senza controindicazioni.
In realtà, la paura rappresenta anche una distrazione e una cattiva consigliera: tante aziende smettono di coltivare la propria unicità per copiare se non acquisire i rivali; altre diluiscono, invece che aumentare, la qualità dei propri prodotti per vincere la guerra dei prezzi; altre ancora favoriscono l’accumulo di riserve monetarie a scapito degli investimenti; altre puntano sulla lobbying politica o sulla corruzione, per cambiare le regole del gioco a proprio favore nel proprio mercato di riferimento. In altre parole, la competizione genera anche l’innesco di freni all’evoluzione dei mercati, e spesso ne favorisce l’involuzione – ovvero la perdita di varietà e di qualità – senza che necessariamente ce ne accorgiamo dalla prospettiva del cliente finale.
Nel suo libro sull’Economia del bene comune il ricercatore austriaco Christian Felber argomenta che, a discapito di quanto possa sostenere la teoria economica, i mercati competitivi sono sistemi altamente inefficienti, ovvero non favoriscono una intelligente allocazione delle risorse finanziarie, tecnologiche e “umane”. Potrebbero sembrare intelligenti da un’osservazione superficiale, ma in realtà noi osservatori non riusciamo nemmeno a immaginare quello che potrebbero essere se lo fossero per davvero.
Abbiamo infatti interiorizzato la filosofia shumpeteriana della “distruzione creativa”, che ci porta a pensare che i mercati necessariamente evolvono distruggendo creativamente quello che c’era prima. Si tratta a mio avviso di una forma piuttosto primitiva di evoluzione, poco fluida e molto dolorosa, con un portato di danni, sprechi e crisi a tutti i livelli.
La risposta di Felber all’economia competitiva risiede nel suo opposto, ovvero in un’economia collaborativa in cui le aziende si aiutano le une con le altre, e quindi chi ha risorse in eccesso le mette a disposizione di chi ne ha bisogno. Tale modello risulta molto seducente, ma a mio avviso per affermarsi avrà bisogno di dirimere le perplessità relative al fatto che nel sistema attuale il concetto di aiuto reciproco è il più delle volte associato a dinamiche di collusione e mantenimento di rendite di posizione (al proposito si legga il puntuale e illuminante saggio di Robert Reich su Come salvare il capitalismo).
Forse un’economia autenticamente evolutiva potrà fiorire allorquando ci emanciperemo dall’ottica del gigantismo e della conquista, che come evidenzia Reich attraverso il caso americano induce le aziende e il sistema politico a oltrepassare vincoli legali ed etici. La mia motivazione principale come azienda è quella di costruire la qualità e l’unicità che mi rappresenta e mi dà senso, piuttosto che delle quantità attraverso cui punto a dimostrare una superiorità nei confronti degli altri. Solo così io azienda sarò disposto a cedere – piuttosto che sottrarre – alcune mie risorse a favore dei concorrenti, perché ho consapevolezza che mantenerle non è ne’ il mio obiettivo ne’ il mio senso di esistere, ma piuttosto il loro. Solo in questo modo il sistema potrà diventare efficiente, ovvero portare all’efficiente allocazione delle risorse senza l’intercedere di crisi.
I presupposti culturali per l’emergere della futura economia etica sono già in essere. Molti imprenditori di nuova generazione sono attenti a perseguire uno scopo che li gratifichi umanamente, piuttosto che costruire imperi industriali o monetari. In molti desiderano emanciparsi da un modello competitivo di cui vedono chiaramente i limiti, non fosse altro in termini di stress e mancata soddisfazione autentica. In molti sono alla ricerca di un nuove opportunità per contribuire altruisticamente e generosamente al mondo, tant’è che si comincia a parlare di economia delle finalità (purpose economy) se non di economia del dono (gift economy).
In conclusione, è forse necessario recuperare l’accezione originaria del termine competizione, dal latino cum petere, ovvero perseguire insieme uno scopo. In nessun modo questo concetto rimandava all’elemento di confronto e di gara. Sposare la competizione significa sposare un obiettivo comune ciascuno con una chiara percezione del significato e dell’importanza del proprio ruolo, così come d’altronde già avviene all’interno delle filiere produttive. Solo così potremo potremo pienamente giocare al rialzo, evitando le rincorse al ribasso e accelerando un’autentica evoluzione della società e dell’economia.
Post scriptum
A quasi 5 anni di distanza dalla redazione di questo articolo, ne integro i contenuti riportando ulteriori mie considerazioni qui di seguito.
Si tratta di uno scambio di idee con Marco Morettini, studente di Unibo-RESD che mi ha segnalato questo ottimo video sulla tematica “competizione contro collaborazione”. Ecco la riflessione che ho proposto a Marco dopo aver ascoltato Giacomo Moro Mauretto:
Si può anzitutto osservare che a differenza degli esseri umani e delle loro derivazioni sociali (es. aziende), gli animali e le loro derivazioni sociali competono tra di loro salvaguardando i contesti in cui si trovano. Si tratta di una competizione che è life-affirming piuttosto che life-denying, come nei casi in cui attraverso costrutti egoici l’uomo/azienda tende volere dimostrare la propria superiorità, prevaricando,
conquistando e umiliando gli altri. Da questo punto di vista avremmo bisogno nel mondo umano/sociale di una competizione maggiormente life-affirming, ovvero guidata dall’amore verso la vita piuttosto che da una guerra interiore tra complessi di superiorità e di inferiorità.
Se siamo veramente convinti che nel mondo abbiamo risorse sufficienti (per la proprietà auto-poietica della vita, per definizione non può esistere scarsità ma solo abbondanza?), è quindi arrivato il momento di creare un sistema fondato su questa assunzione. In un tale sistema, potremo celebrare qualunque nostra “vittoria” (guadagno io, sono contento), così come qualsiasi nostra “sconfitta” (guadagni tu, sono contento lo stesso perché so che anche tu lavori per il sistema che – in un’ottica che non è ne’ egotica ne’ lineare – sostiene e sosterrà anche me, ovvero il senso esteso ed elevato di me).
L’osservare degli animali scannarsi tra di loro non dovrebbe a mio avviso più essere preso a pretesto per giustificare questa (grande) o quella (piccola) “barbarie”: siamo essere altamente evoluti e sensibili rispetto al sentire degli altri esseri; a ben vedere, abbiamo fatto di tutto nella nostra storia proprio per arrivare a un punto in cui stiamo bene tutti, e il pregio ultimo dell’attuale (pur distruttiva) globalizzazione è la tensione
ad emancipare ogni essere umano nel pianeta dal rischio impellente di sopravvivenza.
Il mio augurio è che riusciremo più velocemente possibile ad archiviare per sempre l’ottica costrittiva del mors tua vita mea..
Dopo averla letta, Marco mi ha proposto questa sua osservazione:
“Gli esseri umani sono orientati il più delle volte al proprio benessere individuale di breve termine, che per essere perseguito può richiedere a volte la competizione, mentre altre volte la cooperazione. Allo stesso modo accade nel mondo animale, dove il risultato di queste interazioni nel corso del tempo, attuate in un ambiente di riferimento, porta ad un equilibrio che noi chiamiamo ecosistema.”