La rivoluzione della sostenibilità (1): sostenibilità, ma quale?
Sono passati quasi tre anni da quando mi fu proposto di prendermi carico di un corso universitario sul tema della sostenibilità aziendale. Al tempo di certo non potevo considerarmi un esperto di sostenibilità, ma il prof Simone Ferriani dell’Università di Bologna aveva intuito che il tema era di fatto già nelle mie corde, anche considerato il mio esplicito interesse per tutto ciò che potesse contribuire a recuperare la dimensione etica nell’agire economico. Certo, sostenibilità, ma sostenibilità che cosa? Per due anni avrei dovuto vedermela con un concetto che voleva dire tutto e niente, tanto abusato da essere reso inutile.
Senza saperlo, avrei potuto contare sull’accumularsi della mia esperienza professionale
in Great Place To Work, la società di consulenza che dal 2013 mi offre la possibilità di operare da protagonista nel mondo della responsabilità sociale d’impresa. Entrando nei meccanismi del “pensiero” aziendale, quell’esperienza mi avrebbe aiutato a costruire un corso più realistico, ovvero a concentrarmi su quei contenuti che sono effettivamente in grado di fare la differenza quanto alla sostenibilità d’impresa. Riprendo in mano le cartelle di archiviazione file, rendendomi presto conto presto di quanto le mie ricerche tematiche siano cambiate con il passare del tempo, a partire dalla terminologia utilizzata.
La nozione di sostenibilità emerge parallelamente alla consapevolezza che lo stato attuale di cose, nel mondo dell’economia globale, non possa sostenersi nel tempo. Se gli sviluppi liberisti hanno emancipato “dall’alto” le aziende da restrizioni e vincoli, favorendo l’avanzata di mastodontici gruppi multinazionali, le pressioni “dal basso” della società civile richiamano gli operatori economici alle loro responsabilità, nei confronti dell’ambiente, delle comunità locali, dei lavoratori, dei partner commerciali. Quando nel 1970 l’economista statunitense Milton Friedman dichiara che “la responsabilità sociale delle aziende è quella di accrescere i profitti” spalanca le porte a una nuova era capitalistica in cui la massimizzazione del profitto, nonostante tutto e tutti, diventa il focus dell’agire economico. Il fine ultimo di un’azienda non è più rendere un servizio ai clienti, non è più aumentare le vendite, è piuttosto guadagnare quanto più possibile sulla differenza tra entrate e uscite. Un intero sistema scientifico-finanziario prenderà forma sulla base di questo semplice nuovo assunto, elevando il denaro a valore fine a sé stesso (senza connotati di qualità ne’ limiti di quantità) e veicolando un semplice linguaggio in grado di unire i popoli del mondo nella marcia della globalizzazione.
Fatte queste premesse, si comprende bene come qualsiasi considerazione di sostenibilità che non metta in discussione l’assunto fondante dell’economia “scientifica” risulti inevitabilmente superficiale e posticcia, come se si potesse cambiare la sostanza delle cose modificandone il maquillage. Di fatto, è quello che avviene nella maggior parte dei casi al giorno d’oggi, quando molti economisti – universitari, istituzionali, aziendali – stanno cercando di ricostruire la facciata dell’edificio economico, con moltissime buone idee e risultati incrementali, ma anche tanto green washing e operazioni ideologiche, seppure in buona fede. Nel frattempo, l’assunto e credo ultimo della massimizzazione del profitto continua ad operare indisturbato: senza nemmeno avere la consapevolezza di cosa ciò comporti nella realtà, la maggior parte delle aziende continua ad ingegnarsi in stratagemmi per minimizzare le uscite e massimizzare le entrate, incluso tagliare la forza lavoro, delocalizzare in paesi che consentono inquinamento e scempi ambientali, aumentare indiscriminatamente i prezzi trascurando i segmenti di clientela più impattati, diluire la qualità dei prodotti, ricorrere a campagne pubblicitarie banalizzanti, offensive o ingannevoli, mettere in atto escamotage finanziari di tutti i tipi, e molto altro. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’accelerazione esponenziale di questi fenomeni: più il sistema fondato sulla massimizzazione del profitto si espande – sorretto da mercati finanziari e comunità di azionisti su scala sempre più globale – più le aziende si vedono letteralmente costrette a certe manovre, non solo per prosperare ma per sopravvivere!
Eppure, come una foresta che cresce silenziosa a fronte del rumore di tanti alberi che cadono, un nuovo modello di fare impresa sta emergendo dalle spoglie dell’attuale crisi economico-sociale-ambientale. A questo proposito, preparare il corso per l’Università di Bologna mi ha offerto l’opportunità di trovare quello che stavo cercando, ovvero nuove filosofie che possano traghettare l’economia nella sua prossima fase evolutiva pur preservando il meglio da quella attuale. Per individuarle è necessario emanciparsi dai generici schemi accademici di contrapposizione – capitalismo/comunismo, stato/mercato, global/no global – per cominciare a guardare le cose per come stanno. Quello che balza agli occhi è una situazione in cui il lavoro umano è allo stesso tempo meno necessario, grazie alla tecnologia, ma anche più sottoposto a pressioni esterne a causa della competizione globale, con il paradossale accrescimento sia di disoccupazione (per chi viene escluso) che di stress (per chi rimane).
La risposta risiede nel mettere in gioco più creatività e più capacità di innovazione, ci sentiamo ripetere, ma raramente ci si interroga su che cosa valga veramente la pena ottenere. Se il lavoro umano è un dono e una fonte di nobilitazione, per che cosa vogliamo usarlo e perché? Ha senso esercitare la propria creatività in ottica di “distruzione creativa”? A fronte di una proliferazione e reiterazione incontrollata di prodotti materiali e materialistici di tutti i tipi, di che cosa c’è ancora più profondamente bisogno? E soprattutto: siamo sicuri che la tanto ambite virtù economiche dell’efficienza e dell’efficacia si sposino con un sistema che si regge sulla competizione, ovvero – stando alla definizione del vocabolario – sulla lotta tra persone?
Cercare di rispondere a queste domande significa a mio avviso spianare la strada a nuovi modelli eminentemente pratici, come quelle promossi dai movimenti dell’economia del bene comune, della biomimesi, dello slow management, della sharing economy, dell’economia circolare, delle benefit corporations, dell’economia del “piccolo è bello”, dell’economia del dono piuttosto che di quella dei fini. Si tratta di esperimenti che riguardano quella che dovrebbe essere la dimensione ovvia e naturale dell’economia, ovvero uno spazio di collaborazione in cui persone e imprese si aiutano le une con le altre. Questo avviene già a tutt’oggi, ma solo limitatamente all’interno di gruppi, cordate o catene del valore che poi però sono chiamate a competere le une con le altre all’interno del cosiddetto mercato. Nessun sistema naturale si regge su fondamenti di paura e violenza, e non dovrebbe meravigliare nessuno se ci troviamo difronte a un problema di sostenibilità.
I proponenti della biomimesi affermano che tutto quello che dobbiamo fare è osservare e trasporre nel nostro giovane mondo artificiale le soluzioni adottate dalla Natura nella sua evoluzione di centinaia di milioni di anni. Senza sprechi, senza prevaricazioni, senza inefficienze, senza ipocrisie, senza dissipazione di talenti e di virtù. Un sistema che si fonda eminentemente sull’Amore e sulla qualità. In tale sistema la quantità è solo un premio alla qualità, a differenza di quello artificiale in cui gli esseri umani – svuotati di un loro valore intrinseco – perseguono la quantità fine a sé stessa (ovvero il denaro al posto dell’esperienza del mondo reale).
E sono finalmente in aula, per discutere con i miei studenti del presente e del futuro delle imprese. Abbiamo quindici anni di differenza e rimango colpito dall’atteggiamento di molti di loro, a tratti depresso e cinico. Sembrano accogliere di buon grado le mie considerazioni di sostanza – pur lontane dal loro background economicistico-quantitativo più interessato ai modelli che ai contenuti – ma sembrano disillusi rispetto alla possibilità di ricongiungere etica ed economia. Le aziende, per come le hanno viste raccontate loro, guardano solo ai propri interessi e laddove fanno del bene non lo fanno di certo gratuitamente. Riconoscono che la recente proliferazione e socializzazione dei media ha di certo contribuito a mettere la lente d’ingrandimento sull’operato delle aziende (in classe consideriamo le molte implicazioni positive), ma ha anche costruito uno spazio in parte puramente fittizio e virtuale che può contribuire a rendere le persone più distratte e disorientate dai confronti. Tocco con mano quella sorta di vuoto filosofico che investe parte delle nuove generazioni, un motivo in più per continuare a lavorare sulla sostenibilità, sulla qualità della vita, sulla valorizzazione dell’uomo. Se la storia è di insegnamento, il vecchio sistema è destinato, con fragorosi clamori, a cedere il passo al nuovo, consegnandoci quello che più desideravamo.