Tra profitto e sostenibilità
Si fa sempre più interessante il mio lavoro di preparazione del corso di “sostenibilità” per l’Università di Bologna. Grazie all’esperienza in Great Place To Work, il mio sguardo sul mondo delle aziende è sempre più quello di un insider: le realtà molto virtuose con cui vengo in contatto mi fanno capire come un’impresa possa adottare un comportamento sostenibile e rispettoso verso i collaboratori, l’ambiente, la società, e in generale tutti gli attori con cui essa interagisce.
Nonostante tutto, sembra che l’economia di oggi viva di una contraddizione fondamentale: da una parte la collettività richiede alle aziende maggiore responsabilità, dall’altra gli investitori e gli azionisti richiedono loro sempre maggiori profitti, costi quel che costi. Sempre di più sembrano esistere due aziende parallele che poco hanno a che vedere l’una con l’altra: quella operativa, che si costruisce giornalmente dentro fabbriche e uffici, e quella “finanziaria”, immaginata a tavolino nelle boardroom e dalla comunità degli investitori.
All’interno del mondo operativo, una persona di buon senso potrebbe legittimamente chiedersi perché mai l’obiettivo della propria impresa debba per forza essere quello di massimizzare il profitto. Piuttosto aumentare il fatturato, ovvero vendere di più per diventare più grandi; oppure puntare a una ragionevole quota di profitto, per premiare uno sforzo particolarmente intenso o permettersi un investimento migliorativo. Sposare la filosofia dell’economista newyorkese Milton Friedman secondo cui l’unica responsabilità sociale dell’impresa è quella di aumentare i profitti equivale a rinunciare a considerare le aziende per quelle che sono, per cominciare a vederle come “soldifici”. In pochi decenni questa strana idea è diventata pervasiva, tanto da creare obblighi legali di massimizzazione dei profitti alle aziende quotate e globalizzate. Se vuoi i miei soldi di investitore, tu azienda devi trasformare i tuoi soldi e i tuoi bilanci da mezzo a fine.
Se la logica è questa, non c’è da sorprendersi se al giorno d’oggi molte aziende se ne inventino di tutti i colori pur di far lievitare la bottom line, l’ultima riga dei propri bilanci. Non mi riferisco tanto alla finanza creativa quanto piuttosto a un processo sistematico di abbattimento costi ed espansione ricavi, ovvero quello che sono chiamati a fare i consigli direttivi di molte aziende quotate e non. Negli ampi limiti offerti dalla legge, questi sono alcuni dei metodi che vedo adottare:
Fronte aumento ricavi:
- puntare sui clienti che hanno una più alta capacità di spesa.
Esemplare il caso di Trenitalia che spinge l’offerta di treni ad alta velocità, tagliando i poco “marginanti” interregionali e intercity;
- scontare prodotti dopo averne aumentato il prezzo, o aumentare il prezzo medio dei servizi attraverso dynamic pricing (sconti crescenti a chi acquista il servizio con anticipo, parallelamente all’aumento dei prezzi pieni);
- ricorrere a tecniche di marketing manipolatorio per indurre l’acquisto, per esempio attingendo alla sfera corporea, sessuale e delle pulsioni;
- far pagare per servizi un tempo considerati di serie, quali per esempio un posto preassegnato in aereo (per il qualche alcune compagnie low-cost richiedono un pagamento supplementare);
- trasferire pressione sui collaboratori, incentivandoli a “vendere, vendere, vendere”;
Fronte abbattimento costi:
- diluire le proprietà di un prodotto, per esempio rendendo una bibita lievemente più gassata;
- abbassare i costi di produzione, delocalizzando parte delle attività produttive in paesi in cui il costo del lavoro è più basso e le normative meno stringenti;
- efficientare e informatizzare i processi a tutti i livelli, riducendo la necessità di personale;
- spostare la propria sede legale in un paradiso fiscale, piuttosto che ridistribuire costi e ricavi tra le nazioni in cui si opera allo scopo di pagare meno tasse possibile (il cosiddetto profit-shifting);
In ultima istanza, l’operato di molte aziende si fa sempre più irresponsabile e meno sostenibile. E’ anche vero però che la strategia di abbattimento costi e aumento ricavi è perseguibile attraverso dinamiche esclusivamente virtuose, in primis l’orientarsi verso prodotti e processi che consumano meno risorse ambientali. Molte aziende stanno procedendo in questa direzione, facendo di necessità virtù.
Altre aziende ancora procedono nell’una e nell’altra direzione contemporaneamente, diventando più etici su alcune cose e meno etici su altre, giocando al rialzo ma anche al ribasso la loro epica battaglia per primeggiare o sopravvivere sui mercati globali.
Se è vero che i media di massa ci hanno assuefatto a considerare tutto questo come normale, è anche vero che parte della società civile e del mondo economico sta reagendo, eccome. Due delle società che più mi colpiscono tra quelle con cui interagisco per Great Place To Work, sono la statunitense Gore (prodotti Goretex per tutti i settori) e la bolzanina Salewa (abbigliamento e attrezzatura di montagna). Entrambe non sono quotate in borsa, né sono ossessionate dalla massimizzazione del profitto. Entrambe stimano e valorizzano i propri collaboratori, come persone oltre che manager e impiegati. Entrambe creano e commercializzano prodotti socialmente utili in cui credono fermamente, e la loro passione si traduce tanto in qualità del prodotto che in fidelizzazione degli utilizzatori. Entrambe sono capitanate da persone umili e sicure della propria forza, che non si lasciano spaventare dagli alti e bassi del mercato ma piuttosto mantengono lo sguardo fermo sul lungo termine.
Più continuo nel preparare il corso di Bologna, più mi rendo conto che nel mondo è in corso una silenziosa rivoluzione, con sempre più imprenditori che si orientano verso il modello di Gore o Salewa (penso per esempio alle b-corp), e altrettanti che abbracciano o recuperano approcci più sostenibili. Affinchè questo presente diventi sempre più il nostro futuro, spero che siano sempre più coloro che, come me, vi ci si appassionano.
Immagine: © Confindustria Mantova