La mia casa, l’azienda
In questo periodo dedico la maggior parte del mio tempo lavorativo alla mia azienda.
Le mansioni sono perlopiù operative, anziché concettuali. Entro in contatto con altre aziende, incontro le loro persone, porto a termine analisi in modo semi-standardizzato, approfondisco dettagli tecnici, conduco incontri in cui discuto di problematiche e azioni pratiche da implementare. Nel mio piccolo, sento di fare la differenza per qualcuno e per qualcosa, e mi sento radicato in un realismo e una concretezza raramente sperimentati da ricercatore. Per molti di noi che fanno scienza o lavorano per lo più con i concetti e le idee, tutto è più fluido, raramente si ha la sensazione di dominare il soggetto di studio, e con la “testa tra le nuvole” è forse inevitabile costruirsi una visione idealizzata del mondo, nel bene e nel male.
Non è facile confrontarsi con la pratica, dopo essere cresciuti professionalmente dentro il mondo scientifico. Forse la reazione iniziale è quella di sentirsi screditato e svilito di fronte alla richiesta di portare a termini mansioni pratiche tale e quale tutti gli altri. L’intellettuale ha costruito la propria identità e il proprio narcisismo intorno a intelligenza e alto profilo morale, e ha spesso a cuore la propria carriera accademica anche e soprattutto per un bisogno di prestigio e di riconoscimento sociale. Eppure, la mia esperienza mi ha insegnato che confrontarsi con la pratica equivale sì a sporcarsi le mani, ma anche a mettere i piedi per terra, guadagnando quiete e imparando a portare più rispetto per il nostro mondo sociale ed economico, che nonostante tutto è frutto di un miracolo di micro-collaborazione e di micro-servizio tra persone. Un miracolo che si ripete ogni giorno, e che è molto più complicato e sfaccettato di quello che l’intellettuale potrebbe essere portato a pensare.
Credo ora di comprendere il frequente risentimento dell’uomo d’azienda nei confronti di molti accademici, politici, giornalisti, insegnanti, pensatori, o consulenti-guru che siano. Chi scrive articoli e fa grandi discorsi (incluso il sottoscritto) esercita giustamente il proprio spirito critico e la propria morale, ma non sempre riesce a mettersi nei panni di chi vive di difficile e arida operatività. Spesso ci affrettiamo a mettere in luce quello che giustamente noi vediamo mancare, piuttosto che esprimere la nostra gratitudine. E’ probabile che le nostre parole suonino generiche e presuntuose, prive di quell’umiltà che forse solo l’esercizio meramente pratico ci può trasmettere.
Ricordo ancora i primi tempi al servizio della mia azienda in cui ancora faticavo a mettere la cravatta. Forse, anche inconsciamente, faticavo a conformarmi a un modello standardizzato che poteva omogeneizzare il pensiero e le personalità. Inizialmente, ero soprattutto focalizzato sui forse inevitabili aspetti di superficialità e conformismo della “mono-cultura” aziendale, ma sempre di più apprezzo ora i risvolti positivi di quella che in fin dei conti non è altro che una disciplina di stare in società e stare al mondo, che come tutte le altre ha i suoi pro e i suoi contro. E’ la stessa disciplina che ci consente di capirci e comunicare tra culture, da un angolo all’altro del mondo globalizzato, e per solo per questo credo sia degna di tutto il nostro rispetto.
In un’epoca in cui si fanno più deboli le comunità territoriali, l’azienda multinazionale risponde a un bisogno di appartenenza di persone, che dentro di essa possono condividere gli stessi valori attraverso la concretezza del loro servizio quotidiano. Alla scorsa convention europea della nostra azienda, avevo la sensazione che i colleghi dei 47 paesi del mondo dove opera Great Place To Work e i rappresentanti delle “migliori aziende europee per cui lavorare” da noi premiate si sentissero parte di un’unica grande famiglia, di una grande casa (se non di un castello) in cui veniva ospitata la propria identità professionale e personale. Quell’ambiente ovattato mi trasmetteva una sensazione di radicamento molto positiva, tale da far tacere lo spirito più critico e insofferente della mia indole analitica.
Eppure, siamo in molti a credere che la nostra società e le nostre aziende abbiano un grande bisogno di nuove idee e nuova cultura per evolvere. La provocazione e la “contro-cultura” sono forse indispensabili per curare ciò si è incancrenito, per porsi nuove domande, cogliere nuove opportunità, e recitare un ruolo più responsabile nel più ampio contesto sociale. Provo grande ammirazione per quegli imprenditori e quei manager che, nonostante tutte le difficoltà e le storture dell’operatività, mantengono un’attitudine ricettiva nei confronti degli stimoli offerti dagli intellettuali e dalla società civile. Per quanto questi possano apparire pretenziosi o fuori luogo, sono un frutto prezioso della sensibilità e dell’intelligenza umane, e ci propongono quella visione idealistica di cui forse nutriamo tutti il desiderio.
Immagine: ©greatplacetowork.it