I luoghi che noi siamo
Mi lascio alle spalle la Basilica del Monte e sfreccio tra i frutteti verso il casello di Cesena. Suona il telepass e entro in A14 direzione Bologna. Sfilano alla mia sinistra le colline della Romagna, e la vista di Bertinoro mi riempie di affetto per la terra dove sono nato e dove si sono sedimentati i ricordi più belli della mia infanzia. Sono sceso a riaccompagnare a casa la nonna Maria, di anni novantatre: da qualche mese ormai non faceva che parlare del matrimonio di mio fratello Tommaso, che non voleva perdersi nonostante il laborioso trasferimento necessario sui Colli Euganei.
Eccomi ora a Bologna, imbocco l’A13 che punta dritta verso nord, verso Padova e il Veneto. Sono ancora pieno della gioia e delle emozioni della giornata di ieri: era come se tutta la nostra famiglia si sposasse con Tommaso, uno di quei momenti in cui si celebrava la nostra identità, l’essere per l’appunto identici e un tutt’uno l’uno con l’altro nonostante le diverse storie personali. Le nostre persone e i nostri luoghi, i nostri luoghi e le nostre persone. Queste sono le radici che ci legano al mondo, e forse nulla come queste radici può riempire la nostra vita nel profondo, in un rapporto d’amore foriero di soddisfazioni, ma anche di sofferenze e di tribolazioni.
La mia storia è curiosa, ma forse per nulla atipica: dopo tanto viaggiare e vivere all’estero, ho sentito il richiamo della terra madre: all’interesse e la passione per l’essere un uomo internazionale e di mondo si sono accostate quelle per i miei luoghi e la mia gente. Nonostante tutto e tutti, io non posso che essere un Veneziano, di terraferma, nato in Romagna; un Veneto, un Italiano, un Europeo. Proprio quando ti guardi da fuori, te ne accorgi: in America ho capito la mia identità europea, in Austria il mio essere profondamente e orgogliosamente Italiano, a Milano cos’era il Veneto, a Padova l’attitudine dei Veneziani, e a confronto con i totalmente veneti la mia apertura extra-regionale.
La nostra identità geografica non è qualcosa che possiamo scegliere, e’ inevitabile, fa parte del processo di adattamento di ogni persona alle persone, alle storie collettive e ai luoghi che la circondano. E’ impossibile, per esempio, non essere Italiano, non fosse altro perché lo diventiamo sui banchi di scuola, di fronte alla televisione, dentro le chiese, tra gli strati della nostra storia, e in mezzo alla gente che ci circonda. A livello emotivo, ci identifichiamo anzitutto con la lingua che parliamo, che oltre a fornirci gli occhiali attraverso cui leggiamo il mondo, determina i confini della nostra gente. Il dialetto, in Veneto, sembra svolgere proprio questa funzione, forgiando un’identità regionale pregnante e ricca della gloria passata della Serenissima.
Sembra, inoltre, che i luoghi che frequentiamo abbiano potere di farci innamorare. A furia di guardarli impariamo a scoprire progressivamente la loro bellezza più intrinseca. Chiudo gli occhi e penso ai luoghi che più sono capaci di suscitare il mio attaccamento emotivo: penso a Venezia, alla Laguna e al Lido con la divide magicamente dall’Adriatico, una vista di unica bellezza prima di atterrare sulle piste del Marco Polo, aeroporto tra terra e acqua così come la Mestre dove sono cresciuto, con il fascino dei cantieri navali e la responsabilità di essere porta d’ingresso e di custodia del miracolo di Venezia.
Questa è la mia casa, questa è la mia gente, questo sono io.
E poi la vista delle montagne dalla pianura, la gemma di Caorle, l’odore di mare e di sabbia e gli orizzonti pianeggianti del Veneto Orientale. E poi su, fino ad arrivare ai boschi e alle rocce mozzafiato delle Dolomiti. E poi, ancora, la dimensione medievale e rinascimentale del centro di Padova, vissuta in bicicletta e indissolubile dall’originalità e il rigoglio dei suoi colli Euganei.
Tra le Alpi e il Mediterraneo, questo sono io.
Tanta è la soddisfazione che mi trasmettono i luoghi piu cari, altrettanta e’ l’afflizione e la frustrazione per gli sfregi apportati dall’uomo nei loro confronti. E’ così che per molti di noi i luoghi diventano la nostra delizia e la nostra croce, specchio delle virtù e dei vizi delle genti che li popola, che poi sono anche i nostri. Con chi prendersela, se non con la mia gente, per lo “stupro” della pianura del Veneto Centrale, per l’incapacità di pianificare e gestire i processi di urbanizzazione, per la testardaggine di fare ognuno di testa propria, erigendo villette, strade e capannoni alla rinfusa e nell’ignoranza dei canoni estetici piu’ elementari. Una cacofonia che ci ruba il paesaggio, lasciandoci feriti e disorientati, ed è lo specchio di una società sbilanciata: tanto lavoro poca riflessione, tanti soldi poca cultura, tanto individuo poca collettività, tanta concretezza poca poesia, tanta intransigenza poca tolleranza. Un giudizio tanto impietoso e liberatorio quanto ingiusto, perché fatto a cuore infranto e ferita aperta, troppo mischiati al contesto osservato per comprenderne tutti i perché. Si tratta anzitutto del risvolto negativo della mentalità del miracolo economico, di quell’ansia di riscatto dall’umiliazione della povertà che ha travolto tutto e tutti.
La lezione che ne traggo è che è necessario, almeno per me, allontanarsi periodicamente dai luoghi amati. Per non lasciarsi travolgere emotivamente e per tenere a bada i rancori, occorre uscirne e rientrarne con occhi nuovi capaci di vedere le cose nella giusta dimensione.
Serve rendersi conto che il mondo non è perfetto da nessuna parte, e a volte il problema siamo noi che, semplicemente, vogliamo troppo. Quante volte, atterrato il Marco Polo, ho osservato nei miei luoghi la creatività, l’intraprendenza, e la genuinità della mia gente?
Anche questo, in fin dei conti, sono io.
Immagine: ©lanuovavenezia