La societa’ a misura d’uomo
Piu’ continuo nella mia esperienza di rimpatriato in Italia dal mondo anglosassone,
piu’ cresce in me la convinzione che, nonostante tutti i nostri peccati e i nostri lamenti, noi italiani abbiamo qualcosa di importante da raccontare al mondo. “Siamo come nani sulle spalle di giganti” afferma Renzo Piano, riponendo molta enfasi sul ricchissimo substrato culturale e storico su cui chi e’ cresciuto in questa penisola affonda le proprie radici. Sofisticazione, raffinatezza, creativita’, senso del bello, senso dell’umorismo, senso della misura. Doti di cui il mondo globalizzato di oggi ha, a mio avviso, molto bisogno, considerato un suo marcato sbilanciamento verso quelle dell’efficienza e della funzionalita’.
Il Rinascimento, non a caso, e’ nato qui in Italia, rimettendo al centro dell’universo l’uomo, illuminando nuovamente la strada dopo i secoli bui del medioevo. Piu’ di ogni altra societa’ al mondo, la nostra e’ figlia di quell’umanesimo. Il culto del bello e del piacere fa parte del nostro DNA e sembra manifestarsi in ogni aspetto della vita. Abbiamo costruito una societa’ in cui tutto sembra ritagliato a nostra misura: dal buon cibo ai bei vestiti; dall’armonia architettonica e urbanistica dei centri storici, alla straordinaria e onnipresente produzione artistica; dalle relazioni sociali addolcite dal sorriso e dall’umorismo, a una lingua capace di incantare; dalle vacanze al mare o in montagna (molti illustri viaggiatori di un tempo consideravano questa penisola un eden, un paradiso in terra), al “posto fisso” pensato per garantire piu’ tranquillita’ al lavoro e tempo per la famiglia. Fino ad arrivare alla vigorosa cultura civica e politica che caratterizza questo Paese, e che consente a tutti i cittadini di sentirsi liberi di esprimere e difendere le proprie istanze individuali.
Tutto questo e’ forse frutto di tante cose, che credo valga la pena non dare per scontate. Anzitutto, di un certo eclettismo, spirito critico e apertura mentale, dovuti al fatto stesso che alle fondamenta la nostra cultura premi la curiosita’ e la potenzialita’ individuali, piuttosto che l’efficienza del sistema e della collettivita’. Diverso sembra essere il caso delle societa’ germaniche e anglosassoni, in cui l’operato dell’uomo deve anzitutto essere funzionale: senza farsi troppe domande e ne’ porre troppe questioni, le persone si attengono alle regole, e non sono tenute a fare o a sapere quello che non le compete. In questi contesti, il pregiudizio e’ piu’ funzionale dello spirito critico, che va bene all’interno della propria nicchia specialistica ma livello sistemico rischierebbe di produrre spinte anarchiche e sovversive.
Alla luce di queste premesse, si comprendono forse meglio le ragioni per cui la civilta’ industriale di massa (di questi tempi esaltata come non mai attraverso la globalizzazione) per molti versi non si addica alla nostra cultura italiana per come l’ho qui descritta. Nei decenni scorsi il nostro Paese si e’ industrializzato con grande successo, facendo leva sulla cultura del fare tipica del Nord Italia e in misura diversa anche di altre zone del Paese. Nonostante questo, pero’, la velocita’ che ci e’ stata richiesta dai mercati cosi’ come la serialita’ dei prodotti (e il tipo di istruzione tecnica necessaria per fabbricarli) ci hanno indotto a mettere in secondo piano altri aspetti a noi molto cari, anzitutto l’attenzione al bello. Per industrializzarci abbiamo dovuto in qualche modo forzare e fratturare il rapporto con il passato, e questo strappo appare forse molto visibile a chi visita il nostro Paese oggi.
Chissa’ cosa penserebbe Andrea Palladio, architetto padovano tra i piu’ celebri e influenti di tutti i tempi, a contemplare la bruttezza di tante opere edilizie speculative, di tantissimi capannoni e del tanto cemento di strade e case riversato con poco criterio sul Bel Paese. Architetture erette di fretta e nell’ignoranza dei canoni classici della bellezza, di quegli schemi rigorosamente proporzionali e simmetrici descritti da Vitruvio, l’architetto dell’antica Roma da molti reputato il piu’ importante teorico dell’architettura di tutti i tempi.
Persino l’eclettico Leonardo da Vinci si ispirava a Vitruvio, ricercando le proporzioni dell’essere umano e della natura. Leonardo arriva dopo Leonardo Bruni, umanista fiorentino che invoca “un sapere diligente e intimo, nel quale voglio tu eccella”, un sapere che sia anche “vario e molteplice e tratto da ogni parte si’ che nulla tu tralasci che sembri contribuire alla formazione, alla dignita’, alla lode della vita”. Cosi’ facendo, Leonardo arrivera’ a diventare uno dei piu’ grandi geni dell’umanita’, mentre Palladio affermava “che la suprema civilta’ consiste nel raggiungere il perfetto accordo con la natura, senza percio’ rinunciare a quella coscienza della storia che e’ l’essenza stessa della civilta’”. Sembra che l’idea di una frattura tra il lavoro e la vita, tra il naturale e l’artificiale, il presente e il passato ancora non esistesse, tant’e’ che le ville palladiane “non erano solamente destinate allo svago, ma erano anzitutto dei complessi produttivi integrati armoniosamente nella natura circostante” (cito Wikipedia).
L’era industriale, invece, premia la funzionalita’, la velocita’, il lavoro in quanto tale, la crescita. Persegue l’ideale della grandezza, mettendo in secondo piano la bellezza, la giusta misura e a volte anche il buon senso. Cosi’ si esplicitera’ in parte anche la cultura di massa, esperita attraverso la televisione, a volte appiattita al ribasso piuttosto che al rialzo, frutto di un pensiero banalizzante piuttosto che valorizzante. Forse non c’e’ da sorprendersi se, tra tutti gli occidentali, noi italiani ci sentiamo tra i piu’ sminuiti dalla piega presa dalla storia, perdendo autostima e maturando un approccio cinico e disilluso. Sembra che ci siamo auto-banalizzati, e molto del nostro individualismo illuminato ha preso una piega edonistica ed egoistica. Non e’ un forse caso se quest’anno la giuria di Hollywood abbia deciso di premiare con un oscar il film italiano “La Grande Bellezza”: la decadenza romana descritta con tanta sofisticazione nel film potrebbe essere considerata precorritrice di quella dell’intero modello occidentale.
Nel 2009, rientrato dagli Stati Uniti, scrivevo dell’Italia: “il mondo oggi ha un grande bisogno di noi”, come “capitani di un rinascimento post-moderno”. Oggi, a quasi cinque anni di distanza e di permanenza pressoche’ continua nel nostro Paese, credo di capire meglio cosa si nascondesse dietro quelle mie parole.
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