Filippo Dal Fiore

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Alla riconquista del significato del lavoro

January 20, 2014
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Sono di ritorno da Lione, reduce da tre giorni intensi di lavoro con i responsabili della comunicazione di alcune grandi multinazionali del mondo. Il tema del workshop riguardava la capacita’ di riassegnare significato e  valori all’operato dei giganteschi gruppi industriali di oggi: nell’epoca della corsa forsennata della competizione globale, come garantirsi che imprese e lavoratori non perdano di vista il fine ultimo della loro esistenza? Come far si’ che l’orientamento all’operativita’, alla tecnica, e in ultima istanza al profitto non oscuri una missione piu’ alta di servizio?

Il problema sembra filosofico, ma in realta’ e’ molto concreto: in tutti i settori sono sempre piu’ i casi di aziende che sembrano dimenticare la loro funzione originaria, per abbracciare qualsiasi “diavoleria” permetta loro di diventare ancora piu’ grandi (il caso delle banche diventate casino’ e’ esemplare). La pressione degli azionisti incentiva i dirigenti a spostare il focus dell’attenzione dal prodotto al profitto, accorciando gli orizzonti mentali ai numeri del prossimo trimestre finanziario. L’azienda intera si ritrova schiacciata sull’operativita’, ed e’ sempre piu’ difficile riuscire ad alzare lo sguardo per vedere piu’ lontano degli altri o piu’ semplicemente per capire cosa stia succedendo.

E’ la stessa mente di molti manager e collaboratori a “chiudersi” per venire giocosamente assorbita dal denaro o dalla tecnica.
Assuefatti dalle quantita’ e dalla velocita’, corrono il rischio di perdere di vista la qualita’, ovvero il bello e il buono di quello che fanno. Un paradosso che spesso e’ piu’ evidente a chi sta fuori dal sistema piuttosto che a chi sta dentro, e di qui la necessita’ per molte multinazionali di riuscire a trasmettere nuovi significati sia al proprio interno verso i dipendenti disillusi o demotivati, sia all’esterno verso i media e la societa’ civile. Perche’ tutto cio’? Dove stiamo andando?

Faccio un passo indietro e mi chiedo cosa abbia contribuito a questo stato delle cose. Pressione degli azionisti a parte, credo che una componente della spiegazione, spesso poco compresa nelle sue molte sfaccettature, risieda nella spettacolare accelerazione dei tempi del lavoro e del business resa possibile dall’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione. Rendendo possibile l’esecuzione di piu’ attivita’ e l’attivazione di piu’ canali di comunicazione in parallelo, l’informatica e le reti hanno spianato la strada al mondo delle quantita’.

Tutti noi di fronte al computer possiamo fare piu’ cose allo stesso tempo e delegarne altrettante ad algoritmi che le fanno per noi.
Tale moltiplicazione del lavoro sembra pero’ erodere la qualita’ dello stesso: piu’ cose facciamo, meno tempo e risorse abbiamo a disposizione per concentrarci su di esse e apprezzarne le qualita’. A volte cadiamo nella trappola del bisogno indotto: il “posso” fare tutto e posso farlo subito diventa “devo” fare tutto e devo farlo subito. Inoltre, rispetto alla carta, l’uso dei computer sembra alimentare l’alta velocita’ di azione e pensiero, e in molti corriamo il rischio di strafare. Di fronte agli schermi di computer e a telefonini finiamo addirittura per gestire vita lavorativa e vita privata insieme, venendo regolarmente interrotti e distratti in quello che facciamo, o decidendo noi stessi di saltare di pali in frasca perche’ ci riesce piu’ difficile concentrarci su una cosa alla volta.

Se questa e’ la nuova condizione di gioco, non c’e’ forse da meravigliarsi se sempre piu’ persone e organizzazioni finiscano per perdere il significato e la traiettoria della propria missione professionale. Invece di godersi quello che fanno, diventano vittime di compulsivita’ e senso di pressione artificioso. Altre invece prosperano sull’onda dell’eccitazione e del senso di onnipotenza, ma corrono comunque il rischio di vedere soccombere chiarezza di pensiero e originalita’ di visione a favore di un approccio reattivo e quindi ben piu’ ristretto. Inoltre, l’impazienza e l’ottimismo baldanzoso potrebbero condurli a giocare grandi scommesse con il corso delle cose e quindi con il futuro delle proprie aziende (“playing big bets”).

Chi e’ piu’ calmo e domina il tempo a propria disposizione puo’ invece concedersi un’analisi piu’ ampia e piu’ realistica, fondata sulla comprensione di quello che sta succedendo e sull’apprezzamento del valore autentico del proprio lavoro. Piuttosto che mettere sempre il carro davanti ai buoi, procede per prova ed errore intraprendendo passi piu’ piccoli ma anche piu’ solidi. E’ proprio quello che sto cercando di perseguire io stesso nel piccolo del mio percorso professionale, tenendo a bada il richiamo cosi’ tanto pubblicizzato di volere tutto subito. In una societa’ tanto ossessionata dal successo, ci siamo forse dimenticati di quanto il lavoro possa in se’ stesso essere un nobile e piacevole fine.

Immagine: ©  torkusa.com

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