Sotto le ali del Cristo
E’ ormai notte fonda. Lancio un ultimo sguardo fuori dal finestrino prima di chiudere la tendina e cercare di dormire qualche ora. Sotto di noi il porto algerino di Orano disegna eleganti geometrie di luci. Sullo sfondo, il bagliore delle coste andaluse: il nostro aereo sta spaccando Africa e Europa, in una corsa forsennata verso Dakar, l’Atlantico Meridionale, Recife e, come meta, Rio De Janeiro.
Dalla pista di atterraggio si ha un primo assaggio della magnificenza dello scenario naturale: la Serra da Mantiqueira cinge pedissequamente l’area metropolitana di Rio; il suo profilo e’ cosi’ fitto e seghettato che ricorda le montagne disegnate da un bambino. Circumnavigando la Baia de Guanabara, il taxi mi conduce a Santa Tereza, quartiere del centro citta’ abbarbicato su una collina. Mi lascio sorprendere dal suo flavour tutto speciale quanto improbabile, una sorta di “decadenza eclettica tropicale”: vecchie ville barocche e nuove baracche in lamiera costellano un angolo immutato di foresta tropicale, pregnante negli odori, nella luce e nei suoni che emana.
Esco dalla pousada in infradito e maglietta consunta, conformandomi al vestire semplice e spesso misero di buona parte della popolazione locale. Oggi e’ domenica ed e’ l’unico giorno a mia disposizione per esplorare la citta’. Da domani affianchero’ una delegazione della Banca Mondiale, per avviare una collaborazione sui temi del trasporto sostenibile tra lo Stato di Rio de Janeiro e il laboratorio di MIT per cui lavoro. Ancora frastornato dal viaggio, mi immolo nelle consacrate spiagge di Copacabana e Ipanema, dove continuano ad affluire gli abitanti delle due sovrastanti favelas. Il litorale e’ tripudio di vita, trasuda dell’energia di quel mondo che noi occidentali chiamiamo “in via di sviluppo”: ragazzi, famiglie e tanti bambini si precipitano e si accalcano in ogni tipo di divertimento. In acqua, sulla sabbia, sulla passeggiata lungomare, sugli scogli. La folla e’ immensa, il vociare assordante. Il melting pot delle tanti sezioni di spiaggia mi ricorda quanto grande e’ il mondo.
Sono quasi le nove e mezza, e io sono ancora bloccato dentro un taxi nella downtown di Rio. Nell’ultimo quarto d’ora abbiamo percorso 20 metri, presumibilmente a causa dei lavori in corso. Scendo esasperato, chiamo l’organizzatrice della missione per comunicare il ritardo, corro verso la sede dell’Estado do Rio de Janeiro. Solo per scoprire che non e’ arrivato ancora nessuno. Sono tutti in ritardo. I partecipanti alla nostra prima riunione arriveranno a singhiozzo nel corso dell’ora e mezza successiva, con calma e con grandi abbracci per tutti. Scopro la fluidita’, l’imprevedibilita’ e il vivere alla giornata del Brasile. Si entra in ufficio come si entra in casa, ricercando il calore e l’informalita’ di una grande famiglia. Perlomeno negli uffici pubblici di Rua Mexico.
Non serve molto tempo per cogliere la vastita’ delle trasformazioni e delle sfide che stanno investendo questo angolo di mondo. La principale preoccupazione degli esperti di urbanistica e trasporti che incontro e’ la “governance” dell’area metropolitana di Rio, ovvero come pilotare lo sviluppo di una citta’ diffusa che gia’ ospita oltre 11 milioni di abitanti. E’ il settore privato quello che traina la crescita: la recente scoperta del petrolio sottomarino al largo della costa, insieme alla costruzione di nuovi poli siderurgici e petrolchimici (da parte di multinazionali alla ricerca di normative ambientali meno stringenti di quelle occidentali), richiama immigrazione non qualificata e genera insediamenti abitativi spontanei come quelli delle favelas. Al settore pubblico non resta che rincorrere queste dinamiche, costruendo case, ospedali e scuole al servizio dei nuovi insediamenti, e aprendo nuove direttrici geografiche intorno alle quali progettare il futuro sviluppo.
C’e’ pero’ un problema di disincronia tra tempi del mercato e tempi della pianificazione: le esigenze produttive non aspettano i piani regolatori, e se necessario si corrompono i funzionari governativi. La tecnologia, le competenze e l’univocita’ di scopo delle multinazionali battono sui tempi i processi decisionali partecipativi e (spesso) l’impreparazione delle pubbliche amministrazioni. A pensarci bene, potrebbe essere uno dei motivi per cui il dibattito sulle “smart cities” sta prendendo cosi’ piede in tutto il mondo in via di sviluppo: si tratta anche e soprattutto di imprese multinazionali che costruiscono dal nulla citta’ pensate in funzione delle proprie esigenze, sopperendo a un deficit del settore pubblico. Una mancanza non solo di velocita’ ma anche, spesso, di denaro: rimango impressionato di fronte ai budget messi a disposizione della Banca Mondiale per lo Stato di Rio de Janeiro, per guadagnare una qualche capacita’ di regia dello sviluppo, ma a volte solo per tappare i buchi creati dal mercato. Il risultato assomiglia sempre piu’ a un patchwork o pot-pourri: megalopoli che crescono alla velocita’ della luce attraverso spinte dal basso piuttosto che come frutto di un progetto, intervallando grattacieli a baraccopoli. In un paese poco abituato alle segregazioni spaziali e razziali come il Brasile, il contrasto e’ onnipresente.
E’ mercoledi’, sono le 11 di mattina e io sto per intraprendere la mia ultima visita sul campo. Appuntamento a “Central do Brasil”, la stazione centrale di Rio, per montare sul treno suburbano diretto al Complexo do Alemão. Si tratta di un insediamento di 5 comunidades – parola che si vuole sostituire a favelas – che dal 2010 vivono in relativa tranquillita’ sotto occupazione militare. Prima del successo del programma UPP (Unidad de Policia Pacificadora) molte persone vi circolavano solo se munite di 1 o 2 fucili al collo: il controllo dei narcotrafficanti sulla comunita’ era assoluto. L’esperienza del breve viaggio in treno e’ commovente: solo il rumore della vecchia ferraglia e le grida dei venditori di caramelle rompono il silenzio senza speranza dei poveri e dei disperati di ogni sorte che popolano i vagoni. L’umanita’ dell’esperienza e’ dirompente e non posso trattenermi dal pensare a quanto illusoria sia la maggior parte dei nostri problemi di persone agiate di fronte a tali realta’. La tragedia e’ che, nei paesi ricchi, nostro malgrado, non ce ne rendiamo conto. Per un istante si ha la sensazione di mettere i piedi per terra.
Scesi dal treno, mi aspetta un giro in funivia. Non potevo sottrarmi dal montare sulla “periferica do Alemão”, una delle piu’ grandi innovazioni trasportistiche e sociali a cui riesco a pensare; gli occhi del mio accompagnatore brillano di orgoglio e di entusiasmo. Copiata da Medellin in Colombia, la funivia collega le 5 colline che ospitano le 5 favelas con altrettante fermate. Consente di risparmiarsi percorsi in salita e a zig-zag che a piedi richiedevano ore, se non mezze giornate per gli abitanti delle comunita’ piu’ interne.
La linea e i piloni spaccano i centri abitanti in due meta’ speculari, rendendoli piu’ facilmente monitorabili e sbrogliando l’intrico urbanistico che li rende cosi’ vulnerabili alla soggiogazione malavitosa. La mia visita e’ breve, e’ gia’ ora di rimontare in treno. Osservo la statua del Cristo Redentore che domina la citta’ da ovunque gli si rivolga lo sguardo. Ora sembra assumere tutta un’altra valenza.
Lascio il Brasile travolto dal samba del taxi per l’aeroporto. La mattina successiva sono gia’ a Parigi Charles de Gaulles, e quindi in Italia. Mi si chiede in tono preoccupato se sto bene, e io domando perche’. Apprendo che alle 8 di sera del giorno precedente e’ crollato un vecchio grattacielo della downtown di Rio, trascinandosene giu’ altri due. A due isolati dal vecchio edificio di Rua Mexico dove fino a due ore prima c’ero dentro anch’io. Ringrazio anch’io il Cristo Rendentore e dedico un ultimo pensiero all’incredibilta’ e improbabilita’ di questa metropoli: “con nessun’altra citta’ al mondo sono state la natura e l’uomo cosi’ generose che come a Rio De Janeiro” dicono i carioca. Distillato di sublimazioni e di paradossi del mondo.