Sulle fratture della globalizzazione, in Brasile
Un pungente odore di muffa pervade la stanza, i vecchi mobili in legno appaiono contriti dall’umidita’ dell’equatore. Fuori Belem, metropoli brasiliana porta d’ingresso dell’Amazzonia. Ancora ho negli occhi il paesaggio che ha deliziato il mio atterraggio: il delta del rio delle Amazzoni, fiumi marroni disegnati a serpentina sulla distesa verde della foresta vergine, scura e compatta. Da qualche tempo Manaus ha soppiantato Belem nei collegamenti aerei internazionali, cosi’ che per arrivarci dall’emisfero boreale la maggior parte dei viaggiatori scende fino al tropico del Capricorno, a San Paolo, per poi risalire a 1.4 gradi sotto l’equatore.
Questa zona del nord del Brasile e’ talmente fuori rotta che fino agli anni sessanta Belem intratteneva la maggior parte dei suoi scambi commerciali direttamente con l’Europa piuttosto che con il Brasile urbano del Sud-est e Sud. Ancora oggi, come non mai, gli affluenti piu’ reconditi del Rio delle Amazzoni vengono utilizzati a due sensi di marcia per il contrabbando diretto tra paesi produttori e paesi consumatori: droga e legname da Colombia e Peru’ verso l’occidente; armi nella direzione opposta.
Sono a Belem per un incontro di lavoro con la Vale, una multinazionale mineraria che nello stato brasiliano del Para’, a Carajas, gestisce uno dei piu’ grandi giacimenti del mondo: ferro, manganese, rame, oro. Negli ultimi anni il fatturato della Vale e’ esploso in modo direttamente proporzionale alla domanda industriale della Cina, divoratrice di materie prime sui mercati globali. Indirettamente, e’ decollato anche il PIL del Brasile, un paese che nel frattempo sembra avere beneficiato di alcune politiche sociali innovative e di successo. Si pensi al programma “Bolsa Familia” di Lula: trasferimenti diretti di denaro alle madri di famiglia, con discrezione totale nel suo utilizzo a patto che i figli vengano mantenuti a scuola.
Bersaglio di accuse da ambientalisti e comunita’ locali, la Vale ha recentemente fondato a Belem un centro di eccellenza e ricerca sullo sviluppo sostenibile. Come altri colossi minerari, questa multinazionale si sta orientando verso pratiche estrattive piu’ eco-sostenibili, oltre a maggiori interventi diretti per il welfare delle comunita’ locali. Allo scopo di popolarlo di contenuti innovativi e forza lavoro internazionale, ha stretto un accordo con il MIT di Boston, ed ecco perche’ mi trovo seduto al temporaneo quartier generale del “Vale Technological Institute”, in Travessa Dr.Moraes in pieno centro a Belem. Insieme al mio gruppo, al tavolo di lavoro sono presenti rappresentanti della municipalita’ di Belem e delle due universita’ locali.
La giornata di lavoro porta i primi frutti. Nel tardo pomeriggio, la discussione converge verso una primissima idea di progetto: utilizzare nuove tecnologie e sensori per tracciare e rendere piu’ efficiente la “water economy” informale delle popolazioni locali, l’insieme di scambi di beni e servizi di prima necessita’ che si dispiegano lungo il grande fiume. Sembra che la presenza di un ente esterno e super partes come MIT serva da catalizzatore di consenso tra enti che non nutrono molta fiducia gli uni negli altri. Occorre un po’ di tempo prima che la conversazione si faccia appassionata, prima che vengano messi da parte i sospetti reciproci e si superi un certo senso di rassegnazione. Alcuni brasiliani presenti all’incontro prevedono grande difficolta’ nel passare dalle parole ai fatti. Si continua a enfatizzare l’importanza di nuove politiche pubbliche: sembra che senza l’avvallo del governo locale non si possa fare nulla, dando per scontato che gli interessi dei privati siano per definizione antitetici ai bisogni sociali. E ci sono talmente tante cose che si potrebbero fare per migliorare la situazione, che ci si perde nel capire da che parte occorra cominciare.
Mi torna alla mente Venezia e i nostri tentativi di lanciarvi un progetto innovativo qualche anno fa: per certi versi, era come muoversi in una camera di vasi di cristallo, da qualunque parte ci si girasse si rischiava di romperne uno. La soluzione piu’ logica sembrava l’immobilismo, nella consapevolezza che fosse piu’ importante guadagnare l’avvallo di qualche potente della citta’, piuttosto che esercitare la “distruzione creativa” dell’imprenditore. Siamo molto distanti da quanto ho esperito negli Stati Uniti, al MIT: quell’idea che solo attraverso l’iniziativa personale e privata si possano migliorare le cose e portare un contributo alla societa’.
Uscendo dagli uffici della Vale, la realta’ di Belem mi conferma quanto il Brasile sia paese di grandi fratture sociali e territoriali, che si alimentano le une con le altre. Penso alla foresta amazzonica del Para’, abitata da popolazioni indigene e allo stesso tempo inoculata di appezzamenti, miniere, infrastrutture di trasporto, ed altri generi di proprieta’ privata ad utilizzo commerciale. Buona parte degli interessi degli uni sembrano essere antitetici a quelli degli altri. Penso al tessuto urbano di questa citta’, in cui basta svoltare l’angolo e cambiare isolato per precipitare dall’opulenza dei luccicanti grattacieli di nuovo conio all’indigenza delle favelas (qui chiamate baixadas, perche’ costruite sui terreni bassi a ridosso del fiume). Difficile dimenticare l’immagine di un complesso residenziale di villette perimetrato da mura sopra le quali spuntano “i piani alti” delle baracche immediatamente contigue, prive di acqua corrente e di fognature. Sembra che gli alti tassi di criminalita’ acquisiscano una spiegazione immediata: il crimine e’ sintomo di un male piu’ profondo, delle diseguaglianze di reddito costantemente sotto gli occhi di tutti, esacerbate dalla contiguita’ fisica tra ricchi e poveri. In altri paesi, come Stati Uniti o Francia, tale divario non e’ cosi’ onnipresente, per la presenza di ghetti che “rimuovono” il problema dal punto di vista urbano, isolandolo geograficamente.
Nonostante tutto, la citta’ di Belem continua a crescere, grazie a flussi di manodopera poco qualificata dagli stati brasiliani circostanti. Migliaia di persone continuano a preferire la poverta’ urbana a quella rurale, facendomi pensare che le favelas di tutto il mondo siano certo un luogo di miseria e di frustrazione, ma forse anche di grandi umanita’, solidarieta’, creativita’ e speranza. Mi viene Dominique Lapierre e il suo illuminante romanzo sulla “Citta’ della gioia”. Dal finestrino oscurato della macchina intravedo un gruppo di ragazzini impegnati in una partita di pallone in un improbabile campo di terra bianca, scalzi e sotto il diluvio equatoriale…Mi viene voglia di buttarmi a giocare!
Nonostante tutto, stando a quanto ci propongono le statistiche, la classe media brasiliana sembra crescere di pari passo all’espansione del prodotto interno lordo. Credo che chi si occupa di sviluppo sostenibile non possa che esservi ossessionato: in tanti paesi del sud cosi’ come del nord del mondo la globalizzazione post muro di Berlino e’ accusata di pilotare la maggior parte della ricchezza generata nei conti correnti delle elite, a discapito delle classi cosiddette medie. Al di la’ di quello che ci raccontano le riviste economiche sul boom del PIL nei mercati emergenti, la mia superficiale visita in Brasile mi fa pensare che buona parte del nuovo denaro generato, per quanto mobile, finisca in realta’ per essere canalizzato in un gioco di entrate e rientrate nelle banche e nei circuiti finanziari. La minuscola fetta di paese che mi scorre sotto gli occhi mi offre l’opportunita’ di un “reality check”, di una discesa alla realta’ dall’alto delle aspettative.
E’ interessante notare come non fosse stata questa l’impressione durante la mia visita nell’est urbano della Cina, nel 2007: in quel caso tornai con la sensazione che nell’impero di mezzo fosse in corso un gigantesco esperimento sociale di creazione di classe media. L’indicatore principale sembrava essere le centinaia di torri residenziali di nuova costruzione: la maggior parte di esse erano e sono tuttora destinate ad allocare e riallocare le classi lavoratrici urbane, storiche o acquisite.
Al di la’ di politiche sociali di cui non sono esperto, forse le ragioni di tale successo si spiegano anche pensando a quanto diversificata sia l’economia cinese, presente a livello manifatturiero (e non solo) nella maggior parte dei settori industriali. Al contrario, il Brasile cosi’ come tanti altri paesi in via di sviluppo devono forse ancora troppo della propria crescita economica ai settori estrattivi e dall’agricoltura estensiva, dalle quali la classe media viene “bypassata” a favore di manodopera poco qualificata e facilmente sfruttabile.
Certo, il Brasile, con la sua ricca e accattivante cultura, ricopre un ruolo speciale per il mondo: i mondiali del 2014 e le olimpiadi del 2016 ne saranno la consacrazione, offrendo un nuovo faro e trampolino nel futuro all’intera America Latina. Força Brasil!