Un oceano di mezzo, in teoria
Se mi venisse chiesto quale sia la differenza piu’ fondamentale tra la scuola di pensiero americana e quella europea, credo rispondei l’approccio alla teoria, strumento ultimo per assegnare significato a quello che ci circonda.
Ho l’impressione che oltreoceano le teorie si possano facilmente reinventare. Non che gli americani non vi diano importanza, ma piuttosto sono maggiormente in grado di assegnare loro “il tempo che trovano” e quando serve, di sbarazzarsene.
Questo fa quadrato con la visione del mondo che li caratterizza: in uno stato di transizione permanente il concetto di “radice” e “radicamento” – del pensiero in questo caso – non è esigenza così forte come in Europa. In una societa’ aperta al cambiamento e dominata dal pragmatismo (dove contano anzitutto i fatti e, ancora di piu’, i risultati), le teorie non sono nient’altro che un’altra “story”. Sono una storia che così come ha preso forma in un contesto determinato, puo’ venire smontata e superata in altri contesti: dai nuovi fatti, perché questi hanno sempre la precedenza.
Credo sia anzitutto tale “state of mind” a rendere l’accademia americana ben più agile e meno impantanata rispetto a quella europea continentale. Da noi mettere radici nelle teorie sembra un’esigenza imprescindibile: per fare scienza, in Europa le teorie le devi rispettare, in America devi semplicemente sapere che esistono. Se oltreoceano l’arte del ricercatore consiste nel metterle in questione o riformularle, sulla nostra sponda la scienza assomiglia assai meno ad un’arte quanto piuttosto a un’opera di paziente accumulazione di quello che si va depositando nel tempo. In un modo molto simile a cio’ che noi europei definiamo patrimonio culturale (non a caso molti americani difficilmente ci capiscono, quando ne parliamo).
La mentalita’ europea richiede che le cose cambino più lentamente: così è anche per le teorie, storie che mettono radici e di cui a volte finiamo per diventare prigionieri. Quante volte in cima alla lunga lista dei problemi dell’università italiana si pone “è troppo teorica”? Credo che la teoria fine a sé stessa sia molto meglio di niente, ma anche che sia limitante e sterile fare della teoria il fine ultimo della ricerca e dell’insegnamento.
Gli americani vedono la questione in modo radicalmente diverso: per loro una teoria non ha un senso se non quello di interpretare i problemi concreti, quelli della vita di tutti i giorni. La teoria da fine diventa mezzo: difficilmente l’accademico americano “teorizzera’” se non per spiegare qualche fatto o fenomeno di attualità.
E’ quindi poco probabile che in USA un ricercatore investa tutto il suo tempo nell’approfondimento delle teorie marxiste sulla produzione industriale; piuttosto condurrà una ricerca per analizzare le cause di un fenomeno di attualità (per esempio, l’avvento dei contratti atipici) utilizzando le teorie marxiste, assieme a molte altre, per far chiarezza su ciò che accade.
Volendo essere radicali, in America un professore che non faccia esempi non ha ragione di esistere. Come non ha ragione di esistere una ricerca che non si fondi su dati di fatto osservabili e misurabili.
Mi chiedo: cosa si guadagna e cosa si perde se la teoria da fine diventa mezzo?
Di certo se ne guadagna in puntualita’ di giudizio, obiettivita’ e capacità di produrre risposte reali a problemi reali, piuttosto che un pensiero fine a sé stesso. Quanto a perderci, così facendo è forse più difficile astrarsi dai problemi del proprio tempo, riuscendo a mantenere quella prospettiva distante e “a-storica” che potrebbe generare impreviste obiezioni al sistema.
Non mi sorprendo infine che la maggior parte delle nuove scoperte scientifiche arrivi dai ricercatori che lavorano negli Stati Uniti. Avendo pero’ toccato con mano la difficolta’ di generare l’evidenza dei fatti a supporto di una nuova scoperta o teoria, mi rendo conto che l’approccio americano richieda un’iper-specializzazione e iper-dedizione che ci potrebbe isolare dal resto del mondo. Vengono a mancare gli incentivi e il tempo necessario ad alzare la testa e guardare oltre il proprio “baby” (cosi’ molti ricercatori e professionisti americani chiamano il prodotto del proprio lavoro), con il rischio di rimanere incastrati dentro le ideologie dominanti.
Insomma, ancora una volta, il mondo perfetto sembra proprio non esistere.