Fine del lavoro?
Torno a scrivere sulla questione della crescita.
Una crescita che ci viene presentata ogni giorno come realta’ ineluttabile: crescita costante della popolazione mondiale; crescita delle attivita’ economiche, misurate attraverso il PIL; crescita dell’urbanizzazione. Tale crescita mette alla prova la sostenibilita’ e vivibilita’ del mondo, nonche’ le singole identita’ culturali: inquinamento, cambiamenti climatici, esaurimento delle aree verdi e della vita nei mari, emigrazioni di massa.
Forza motrice di ogni tipo di crescita e’ il lavoro: si decide di avere tanti figli anche perche’ li si considera potenziale forza lavoro; le attivita’ economiche si espandono grazie al lavoro; intere popolazioni trasmigrano dalle campagne alle citta’ in cerca di lavoro. Gli uomini rincorrono il lavoro e cosi’ facendo consumano le risorse a loro disposizione, senza che a queste venga lasciato abbastanza tempo per rigenerarsi. Comprensibile, mi dico, allorquando il lavoro e’ condizione di sopravvivenza per alcuni e di accesso a migliori opportunita’ per altri.
Il sistema attuale pero’ non garantisce lavoro per tutti, dal momento che l’uomo e’ sempre piu’ sostituibile dalla tecnologia. I grandi terreni coltivabili una volta impiegavano centinaia di persone, con la meccanizzazione e dell’agricoltura forse qualche unita’. Se si automatizzassero tutti i caselli autostradali, scomparirebbero i casellanti.
Fortunatamente in molti casi la tecnologia crea lavoro oltre che sottrarlo: e’ il caso della rivoluzione informatica che da’ lavoro a milioni di persone in tutto il mondo (e per molti Internet e’ anche un modo per impiegare il tempo libero al lavoro).
Sembra pero’ che la velocita’ con cui la tecnologia sottrae non venga compensata dalla velocita’ con cui restituisce, non da ultimo perche’ lo sviluppo di nuovi settori necessita dei tempi lunghi della formazione di quella che sara’ la futura forza lavoro.
Inoltre, il sistema attuale non garantisce lavoro per tutti anche perche’ imperniato sulla massimizzazione dell’investimento e sull’accentramento della ricchezza: da una parte c’e’ un incentivo a impiegare meno persone possibile (gli stipendi sono contabilizzati come passivita’); dall’altra ad accumulare e privatizzare i profitti invece di reinvestirli in nuovo lavoro (specie per le aziende quotate in borsa).
Tale mancanza sistemica di lavoro spinge l’uomo a cercarselo in altri modi, per esempio:
- incrementando le fila dell’economia illegale, dove un eccesso di forza lavoro porta a fenomeni quali la recente guerra delle gangs in Messico o a Napoli;
- aderendo a organizzazioni filosofiche e para-religiose, che a volte sconfinano nel fondamentalismo come nel caso di Al-Qaeda;
- generando lavoro e valore economico dal nulla, come dimostra la costante espansione del settore finanziario negli ultimi decenni, relativamente all’economia reale;
- costruendo prodotti e servizi ritagliati su bisogni sempre piu’ secondari se non fittizi, che determinano una crescita tumorale piuttosto che intelligente dei settori produttivi e che ci rendono la vita sempre piu’ complicata (penso per esempio a una certa “deriva” del settore farmaceutico, dove gli effetti indesiderati dei medicinali diventano scusa per inventarne di nuovi).
In definitiva, quindi, mi sembra che un giro di boa dell’umanita’ vada fatto sul lavoro.
Se vogliamo imboccare la strada della sostenibilita’, qualsiasi nuova tecnologia introdotta dovra’ necessariamente creare piu’ lavoro di quello che distrugge. Dovremo sostituire parte del lavoro che coinvolge lo sfruttamento di risorse finite con lavoro dedicato agli altri e all’ambiente. Dovremo creare nuovi incentivi all’impiego nel settore privato. Dovremo forse lavorare meno per far lavorare tutti, rinunciando a piu’ ricchezza, ma anche a piu’ stress e schiavitu’ da soldi.
Gia’ nel 2002 il sociologo Rifkin parlava provocatoriamente di “fine del lavoro”. Di sicuro di cose da fare ce ne sono ancora tante, ma forse quello che manca e’ una riflessione su cosa valga veramente la pena intraprendere.
In un articolo del 2 maggio intitolato “Sei assunto, il prossimo anno” l’Economist
racconta come le aziende americane facciano fronte alla mancanza sistemica di lavoro in tempi di crisi: proponendo assunzioni posticipate, contratti free-lance, piu’ vacanze e meno ore di lavoro in cambio di retribuzioni piu’ basse.