Quale futuro per l’insegnamento universitario?
E’ da qualche anno ormai che sono impegnato in attività di docenza universitaria.
Un tempo non pensavo che l’insegnamento potesse piacermi: in assenza di una sfida reale o intellettuale da risolvere, la consideravo un’attività poco stimolante di cui avrei finito per annoiarmi.
In realtà, anche grazie e soprattutto alla mia attitudine curiosa e propensa alla sperimentazione, ho scoperto che l’insegnamento non solo va condotto con molto più senso di responsabilità di quanto non si possa pensare, ma che può rappresentare un impareggiabile momento di confronto, crescita e soddisfazione per il docente stesso.
E’ però necessario che l’insegnante sia disposto a fare un passo indietro nella propria elevata auto-percezione di “intellettuale” e “professore”, per mettersi autenticamente a servizio sia degli studenti che dei contenuti proposti.
Nel mio caso, l’opportunità formativa più importante mi è stata offerta dalla strada stessa che mi ha condotto a diventare un educatore.
Più che un processo lineare di acquisizione di conoscenze specialistiche e di reputazione accademica, si è trattato di un percorso variegato in cui mi sono messo alla prova in diversi ambiti, scientifici così come aziendali così come personali, tanto all’interno quanto all’esterno del mondo universitario. Ho nel tempo acquisito tre elementi che considero molto importanti per proporre agli studenti dei contenuti e un’esperienza veritieri, ovvero:
- un solido background scientifico e culturale
- un’esperienza di servizio nel mondo professionale
- sensibilità e competenza educativa, da affinare progressivamente e incessantemente sul campo
Si comprende bene come nel sistema attuale sia raro che queste condizioni coesistano nelle stesse persone, pricipalmente perchè ad oggi le carriere universitarie o aziendali o educative tout court richiedono totale dedizione a chi le percorre. Si privilegia di volta in volta uno degli elementi sopra-menzionati e, salvo eccezioni, si tralasciano gli altri; esistono d’altro canto poche opportunità istituzionalizzate per coloro che intraprendono percorsi multi-professionali o carriere orizzontali.
La conseguenza è una mancata evoluzione della figura dell’insegnante, che se rimane ancorata a quella di un impartitore di nozioni e di giudizi (di modo ripetitivo, anno dopo anno) rischia di raffreddare la passione e l’interesse degli stessi praticanti, oltre ovviamente a quella degli studenti per i quali l’apprendimento si connota come dovere piuttosto che come piacere.
Intravedo un enorme spazio inesplorato di opportunità nel futuro dell’insegnamento, a maggior ragione in un’epoca in cui è sempre meno probabile che basti possedere un ampio ventaglio di nozioni e conoscenze per gestire con successo il proprio cammino professionale e di vita. La complessità e il caos del mondo odierno richiedono anche e soprattutto la capacità di riflettere sull’esperienza, di gestire appropriatamente le nostre emozioni, e di nutrire e rinnovare le relazioni con gli altri. Più impariamo a fare questo, più il nostro contributo diventerà non solo più consapevole ed appropriato, ma anche più autentico e di valore.
Risulta quindi importante rendere l’apprendimento il più significativo possibile per gli studenti, perché è nella significatività e negli scopi che si generano motivazione e personalizzazione originale dei contenuti. Per far questo i docenti saranno sempre più chiamati a lavorare in team per far sì che i corsi di laurea e di specializzazione non rimangano solo dei raggruppamenti di corsi a libera gestione individuale poco collegati tra loro. L’opportunità è quella di evolvere verso contesti dinamici in cui studenti e docenti collaborino a definire e sperimentare nuovi format educativi, nuovi percorsi di senso e di consapevolezza, nuove esperienze nel mondo, e in ultima istanza nuovo potenziale per migliorarlo. Senza per questo compromettere i fondamentali così come gli specialismi.
Le università che avranno più successo saranno plausibilmente quelle che non si limiteranno a valorizzare i propri specialisti, ma che costruiranno una propria proposizione originale di valore e di significato verso l’interno così come verso l’esterno, emancipandosi dal modello auto-referenziale e auto-celebrativo della “torre d’avorio”. A differenza di molte aziende, forse ancora poche università si stanno mettendo alla prova nella redazione condivisa di propri codici etici e carte dei valori, o nel fornire ai propri collaboratori un’adeguata formazione a livello di competenze relazionali e gestionali. E’ inoltre necessario prendere più consapevolezza dei costi associati alla permanenza esclusiva di ricercatori e docenti all’interno di un dipartimento, di laboratorio, di una disciplina o scuola di pensiero. Il mancato misurarsi con esperienze e punti di vista diversi può portare le persone a sviluppare posizioni radicali e attitudini arroganti (fino a perpetuare danni psicologici, in primis verso i propri studenti), senza l’opportunità di comprendere da un lato l’importanza dall’altro la normalità del proprio mestiere. Si tratta a mio avviso di un’apertura ed evoluzione necessaria a tutte le professioni e culture, verso una società futura in cui saremo auspicabilmente più in grado di comprenderci e stimarci gli uni con gli altri. Un contesto in cui non sentiremo più il bisogno di acquisire lo status di “professore” per sentirci rispettati ed amati, ma lo faremo perché è quello che ci gratifica di più.
Credo che oggi come non mai il mondo abbia bisogno di valorizzare il contributo dei suoi intellettuali ed accademici, che proprio perchè rifugiati in torri d’avorio potrebbero non riuscire a comprenderlo pienamente, e quindi anche ad incidervi di maniera sostanziale senza esserne strumentalizzati. In molti casi chi lavora nelle scuole e nelle università è mosso da grande vocazione idealistica e sensibilità personale, due caratteristiche che a volte comportano il rifiuto snobbistico o la fuga dallo stato attuale del mondo. A volte è forse però necessario confrontarsi con le “bassezze” della realtà per riuscire ad elevare sé stessi di maniera autentica, curando le proprie ferite e riconciliandosi alla pari con gli altri e con quello che ci circonda.
Credo infine che nell’epoca dei media onnipervasivi che ci propongono di maniera scomposta ogni genere di immagine e di opinione, sia forte il bisogno di ordine e di scientificità che solo chi è preparato a farlo può portare. Da questo punto di vista mi auguro che il futuro vedrà il moltiplicarsi di quegli accademici in grado di trasporre il proprio metodo scientifico di maniera semplice ma rigorosa verso i problemi e le sfide sociali e organizzative più pressanti, piuttosto che confinare il proprio contributo alle pubblicazioni scientifiche e alle cause sociali di pertinenza. Il comprendere il modo di ragionare e operare di altri mondi ci aiuterà a parlare e ad agire con più consapevolezza e più etica, nonchè a capire in quali modi e forme proporre una conoscenza utile, spendibile e immediatamente sperimentabile.
Immagine: ©colorado.edu