I rischi della mono-disciplinarietà
La multidisciplinarietà è sempre stata il mio pallino. Nei lunghi anni della mia formazione scientifica, mai riuscivo ad accontentarmi degli strumenti che mi offriva ciascuna specifica disciplina sociale con cui venivo in contatto. Percepivo che la mentalità che si acquisiva dentro i dipartimenti universitari in qualche modo non mi apriva a capire il mondo nella sua complessità (e, al contempo, semplicità), ma piuttosto confinava il mio pensiero dentro binari che promettevano sì di produrre degli output conoscitivi controllabili e attuabili, ma anche molto ristretti nella loro valenza epistemologica ed etica. I filosofi parlano di “riduzionismo”, gli psicologici di “visione a tunnel”: invece che mantenere gli occhi ben aperti verso l’arcobaleno del mondo, ci conformiamo a credere che il mondo sia solo di un colore. Invece che intraprendere l’esplorazione del mare, preferiamo continuare ad affinare le tecniche natatorie in piscina, finendo per scambiare l’una per l’altro.
Se fosse per me, della scienza manterrei il metodo empirico (ce n’è grande bisogno!), ma mi emanciperei dalle discipline. In fin dei conti, le discipline erigono dei confini che semplicemente non esistono nel mondo reale, sono confini artificiali, inventati, di comodo, al pari dei confini politici tra i paesi del mondo. Lo dice pure la parola: le discipline servono per “disciplinare” il mondo, ovvero per dare al mondo un ordine a partire da alcune assunzioni di partenza, non per capirlo.